Le detenute madri

riflessioni dopo la sentenza di Cogne

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  1. Fantuzzy da Podium Varinum
     
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    Lichtenstein .. o San Marino, che anche loro hanno il rappresentante all'ONU

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    Prefazione Adriano Sofri per “Lisistrata Incatenata”

    Il paradosso di partenza della nostra questione è presto detto. Il corpo delle donne sembra fatto apposta per la prigione. Sembra così, voglio dire, agli uomini maschi. Il corpo delle donne deve essere castigato per il solo fatto di esistere, prima e a prescindere da qualunque trasgressione. Pensateci: si dice proprio così. Avere un abbigliamento castigato, uno sguardo castigato, un comportamento castigato. Castigato e femminile sono pressoché sinonimi –o lo erano, ma la partita è tutt’altro che chiusa. Sicchè la reclusione corporale è un destino arcaico e sempre riaggiornato delle donne: nella parte più interna della casa, o perfino dentro un abito che le infagotti, ne cancelli la forma, le sottragga alla vista altrui e le renda semicieche, invisibili e non vedenti. Il burka, prigione portabile, è una combinazione antica e modernissima di detenzione domiciliare e di traduzione penitenziaria. Il burka meglio del chador, grazie alla grata davanti agli occhi, corrispondente scrupoloso della grata della cella carceraria o della clausura monastica; benchè il chador nella sua versione khomeinista più ortodossa gli faccia concorrenza con il suo lugubre nero d’ordinanza. Infatti la prigione portatile dell’uniforme femminile è già un’anticipazione di sudario. Dunque, il corpo delle donne sembra fatto per essere chiuso, recluso, domato e sepolto, prima vivo poi morto; e sempre messo a disposizione del suo padrone o dell’interposto guardiano: senza reato, senza colpa nè condanna, salve quelle che la cultura patriarcale ha sempre sospettato e temuto e invidiato nella natura femminile. E all’altro capo, le donne non commettono reati, se non in misura e virulenza irrisoria. Siamo ancora, nel 2008, con tutti i ministeri per le pari opportunità, nemmeno al 5 per cento di quota femminile sul totale dei delitti. Così la reclusione specificamente carceraria delle donne, benchè nutrita dalla povera schiera di nuove arrivate dal mondo secondo e terzo e quarto, e nonostante il modello Usa annunci formidabili progressi, resta mediamente in tutta Europa un’appendice minuscola della criminalità, che è prerogativa maschile. Nemmeno il Parlamento italiano, che ancora oggi si è premurato di restare al di sotto della quota del 25 per cento di donne che l’Unione Europea aveva fissato come il minimo della decenza, si sogna di emulare l’irrilevanza della percentuale a delinquere delle donne. Si sa che questa marginalità si traduce nel fatto che non esistono, se non in misura minima e trascurata, carceri specificamente femminili, e invece sezioni femminili annesse a carceri maschili, dove tutto, dai muri alle mentalità, è pensato per cancellare la femminilità.
    Negli ultimi tempi qualche cortina di fumo è stata levata a offuscare la fastidiosa verità di questa più colossale manifestazione della differenza fra uomini e donne. La principale, non occorre dirlo, è il clamore attorno alle “madri assassine”, cavallo di battaglia della morbosità mediatica e della destituzione dell’immagine nonviolenta della donna a partire dal suo tabù stereotipo, l’abnegazione materna. Sufficienti a riempire un triste edificio specializzato a Castiglione delle Stiviere, infanticidio e figlicidio non bastano comunque a intaccare la sostanza della questione, che è la sproporzione nel delitto fra donne e uomini. Più esattamente, la crescita esponenziale dei delitti di uomini contro donne. Sapete: l’omicidio del coniuge si chiama uxoricidio, che alla lettera vuol dire uccisione della moglie, come se fosse inteso dall’origine che è quella la cosa normale, e che il reciproco non può che essere scandalosamente straordinario. Dite la verità: di fronte a un trafiletto che intitoli “Donna uccide il marito...” vi stropicciate gli occhi e tornate a leggere, più che di fronte alla proverbiale antinotizia “Uomo morde cane”. Mi dispiace di non avere il dato esatto, ma la percentuale di uomini assassini di donne sul totale dei detenuti per omicidio è ormai rilevantissima, e si è dovuto coniare il tutto nuovo termine di femminicidio, mentre le donne che nel loro piccolo si sono impegnate a rendere la pariglia sono rarissime, e da estrarre dalla neutra categoria di “vedove”.
    Questo significa che la gran parte di donne associate alle maschilissime galere ci arrivano avendo già sperimentato di persona in varia dose la violenza maschile e sociale. (“Nella maggior parte dei casi le donne arrivano in prigione distrutte da anni, se non da una vita intera, di abusi psichici e sessuali da parte degli uomini”. Così Jane Evelyn Atwood, che ha lavorato per anni a fotografare donne detenute). Perfino uno degli aspetti più apprezzabili della trasformazione che nonostante tutto investe il sistema penale, cioè la moltiplicazione di dirigenti, e particolarmente di direttrici di carcere, donne, fa sentire i suoi effetti benefici –dove sono benefici- soprattutto sulle carceri maschili.

    Il carcere è, per chiunque vi caschi dentro, un luogo di panico. Ci si sente in balia d’altri, come nel più oscuro dei sequestri. Non importa che qui si tratti dello Stato, e non di banditi privati e mascherati. In qualsiasi momento lo Stato, o l’agguato di qualcun altro, può arrivare in maschera ad afferrarvi nel vostro sonno angosciato, a spogliarvi, pestarvi, trascinarvi, violentarvi. Questo essere nudi corpi senza diritti e senza difesa in balia d’altri è una condizione peculiare per le donne, per le quali è già nella esistenza libera una minaccia incombente, nelle strade notturne senza illuminazione o tra le pareti di casa. Angela Davis, la militante nera che aveva fatto tesoro della sua personale detenzione per occuparsi del carcere degli altri, raccontava il contenuto di interviste con detenute. “Molte delle donne intervistate ci hanno raccontato una storia... Di sera, prima di andare a dormire e prima che le luci vengano spente, le donne nel dormitorio sono animate. Siedono sui loro letti - non è permesso loro di sedere sul letto di un’altra. Parlano, conversano, sono completamente sveglie, quando improvvisamente gli sfiatatoi iniziano a funzionare. Nel giro di pochi minuti tutte le donne cadono in un sonno profondo. E quando dormono un gruppo di operatori sanitari arriva, sposta i corpi che dormono sui lettini a rotelle e li trasporta in un laboratorio. Là vengono condotti esperimenti sui loro corpi. Poi vengono riportate indietro e rimesse nei loro letti. Si svegliano e non hanno nessun ricordo di ciò che è accaduto. Alcune delle donne hanno raccontato questa storia come se fosse realmente avvenuta. Con parole loro direbbero: ‘Gli sfiatatoi hanno iniziato a funzionare la scorsa notte, c'era qualcosa negli sfiatatoi che ci ha messo fuori gioco, poi sono venuti e ci hanno fatto questo’. Altre hanno fatto racconti come se fosse la trama di un film, alcune hanno detto: ‘E se questo dovesse accadere?’ ‘E se, quando gli sfiatatoi si accendono e andiamo a dormire, è questo che avviene?’ .”

    Le donne detenute dunque sono troppo poche, e troppo poco criminali, perchè si dedichi loro un’attenzione appropriata. Nel caso della galera, la prima e più fatale di tutte le differenze, quella di sesso, viene più sottovalutata e trascurata che altrove; eppure molto più che altrove si fa sentire. Ho detto che la gran maggioranza delle donne detenute ci arrivano avendo saggiato da vittime la violenza maschile e sociale: è così per le tossicodipendenti, per le donne che si sono prostituite, per le straniere che sono state impiegate a trasportare droga nella pancia o a battere le strade, o, nel caso delle giovani rom, a mendicare o rubare. In un numero elevato di casi (i tre quarti, secondo alcune statistiche europee) le donne detenute hanno almeno un figlio, e questo basta a rendere il loro carcere incomparabile con quello maschile, perchè la distanza e la separazione obbligata delle donne dai figli –tanto più dai figli restati in un altro continente- è ben altrimenti dolorosa che quella dei padri. Nel caso, peculiarmente tragico, di donne detenute con figli piccolissimi detenuti con loro –che continuano a essere alcune decine, nonostanti le buone intenzioni di legislatrici e volontari- non si può dire se sia più tremenda la vita in gabbia di quell’infanzia o la sua interruzione quando l’età imponga di separarla dalla madre.
    Torniamo un momento a quel bel concetto spagnolo, per così dire –in Italia è roba da ridere- delle Pari Opportunità. C’è qualcuno che auspichi francamente che anche in questo campo la parità fra donne e uomini sia presto raggiunta, magari istituendo per obbligo di legge una quota rosa negli omicidi, nelle rapine, nella grande criminalità organizzata? (In un certo senso, si tratta di un segnale di ritardo: le donne sono tenute al margine di tutte le carriere e della stessa carriera criminale.
    Inoltre il maschilismo può mutarsi in paternalismo nel valutare i comportamenti femminili. E' tipico che nei manicomi, con qualunque eufemismo si vogliano chiamare, la presenza femminile sia stata molto maggiore. Quando le donne ci dispiacciono, le dichiariamo pazze. Del resto, veri “progressi” criminali li hanno fatti le donne di mafia, e non solo nella matriarcale Calabria, come documentano da anni le studiose dell’Università cosentina). Oso sperare di no, e che almeno in questo ambito di competenze (ma non solo) a una parità si tenda piuttosto dall’altro lato, con una riduzione progressiva dei farabutti maschi e non con una promozione del bullismo femminile. Ma allora, anche solo a partire dal riconoscimento di questa ovvietà, bisognerebbe ammettere che, fatta eccezione per quella davvero minima quota di donne criminali di rango, la galera femminile vada sic et simpliciter abolita. Non ce n’è bisogno, di galera femminile. Anzi, c’è bisogno che non esista. Questa è la vera ricetta che un medico coscienzioso deve compilare, subito dopo aver auscultato respiri e sospiri e rantoli delle sezioni femminili delle nostre belle prigioni. Questo è il succo della questione sanitaria. Siccome niente di quello che è ragionevole e morale è destinato a essere riconosciuto e tanto meno realizzato, allora si potrà simulare di occuparsi “realisticamente” della questione sanitaria. Ho appena scritto, qui sopra, “un medico”: per fortuna anche le galere si sono popolate di medici donne, che è un gran cambiamento. Non siamo ancora alle specialiste in disturbi urologici maschili, che prima o poi, fuori e dentro, dovranno saldare il conto con secoli di ostetriche donne e ginecologi maschi. Ma mi chiedo come il medico penitenziario o di asl o misto possa regolarsi di fronte alla tranquilla domanda di una detenuta alle sue compagne: “Non vi è capitato che al primo anno di carcerazione vi si è bloccato il ciclo mestruale?” (La traggo, la domanda, da quel prezioso giacimento di notizie e pensieri che è l’archivio di “Ristretti orizzonti” e del lavoro svolto fra volontarie e detenute alla Giudecca di Venezia. Segnalo in particolare il volume “Donne in sospeso”, testimonianze di detenute della Giudecca, con prefazioni di Franca Ciampi e Simona Vinci). E, se al fondo della brutalità e dell’ottusità penitenziaria, della tradizione millenaria della segregazione e dello schiacciamento dei corpi (come nella tortura) sta la demolizione e la mortificazione della sessualità, bisogna riconoscere che fra la cella maschile e quella femminile c’è una misura di simmetria, ma soprattutto una asimmetria e una differenza. Uomini che si lasciano andare o “si sfondano di flessioni e di seghe”; donne che si lasciano andare o si truccano e si pettinano. Sono corpi, mutilati, umiliati, tenuti al morso, ma nel carcere maschile si tormenta il corpo di fuori, nella sezione femminile il corpo di dentro: l’intimità, la maternità, o il suo rifiuto, e comunque una trasformazione puntata verso il dentro piuttosto che verso l’esterno. C’è una parentela, fra detenuti e detenute, ma più ancora una distanza. Scrivono lettere, si scrivono lettere infiammate, si danno appuntamento per domani. Domani, se arriverà, saranno sfebbrati di colpo e avranno un sapore di cenere in gola. In una di quelle belle conversazioni di cui l’archivio padovano-veneziano che ho citato conserva le registrazioni, a proposito della paura dell’incontro rinnovato col sesso o con l’amore all’uscita, una detenuta dice: “Preferisco ricominciare con qualcuno che abbia fatto la mia stessa esperienza del carcere”, e un’altra dice: “Non potrei mai farlo con uno che avesse conosciuto il carcere” –e forse una stessa persona potrebbe dire ambedue le frasi.

    Adriano Sofri

    :sick: :sick: :sick: :cry:

     
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21 replies since 6/6/2008, 21:41   680 views
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