Il rancore femminile
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Il rancore femminile

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    Di norma, la non assegnazione di un Premio Nobel, non dipende affatto dal possedere due cromosomi X anziché un X e un Y...
    Per esempio, lo scorso anno il premio Nobel per la fisica è stato vinto dai giapponesi Yoichiro Nambu, Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa, i quali si sono basati sui lavori pubblicati nel 1963 dal fisico italiano Nicola Cabibbo,
    http://www.fondazioneitaliani.it/index.php...-a-Cabibbo.html
    SPOILER (click to view)

    Premio Nobel per la Fisica 2008. Riconoscimento negato a Cabibbo
    martedì 07 ottobre 2008
    Delusione italiana per l'assegnazione del Nobel per la Fisica. Il Comitato non ha ricosciuto al fisico italiano Nicola Cabibbo la paternità dello studio premiato.

    di Andrea Camboni

    Premio Nobel 2008. Tutti i pezzi

    andromeda.jpg Dopo il Nobel per la Medicina assegnato a Luc Montaigner, Francoise Barré Sinoussi e ad Harold zur Hausen, l’Accademia Reale Svedese delle Scienze ha conferito il Nobel della Fisica ai giapponesi Yoichiro Nambu, Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa per le loro ricerche sulla fisica delle particelle. Metà del premio è andata a Nambu che lavora nell'istituto dell'università di Chicago dedicato a Enrico Fermi mentre l’altra metà se la sono divisa equamente Kobayashi, dell'organizzazione giapponese Kek (High energy accelerator research organization), e Maskawa, che lavora nell'istituto di Fisica teorica dell'università di Kyoto.
    Gli studi dei tre ricercatori costituiscono l’ossatura della teoria di riferimento della fisica delle particelle, avendo gettato le basi del Modello Standard, ovvero l’“enciclopedia” di tutte le particelle elementari ad oggi note, inclusa la descrizione di tre delle quattro forze fondamentali (le interazioni forti, quelle elettromagnetiche e le deboli) che regolano le interazioni di queste particelle.
    Solamente il bosone di Higgs - la cosiddetta “particella di Dio”, che spiega l'esistenza della massa - mancherebbe all’appello. È a questa ricerca che è diretto l’esperimento del Cern di Ginevra.
    Ill lavoro di Nambu, Kobayashi e Maskawa ha svelato l'asimmetria del nostro pianeta individuando contestualmente le deviazioni dalla simmetria a livello microscopico.
    Questo equilibrio asimmetrico, generatosi da una rottura spontanea della simmetria, venne descritto matematicamente, per la prima volta da Nambu, all’inizio degli anni ’60. Kobayashi e Maskawa, i cui esperimenti sono iniziati nel 1964, hanno invece descritto i fenomeni di rottura della simmetria che agirono quando l’universo era ancora in fasce.
    Più semplicemente: l’universo, creato dall’esplosione del Big Bang, presentava pari quantità di materia e antimateria che, in teoria, avrebbero dovuto annullarsi a vicenda mortificando qualsivoglia scintilla di vita. E invece è successo qualcosa. La rottura di una simmetria, appunto, di un equilibrio tra essere e non essere che nel migliore dei mondi possibili, forse, sarebbe rimasto necessariamente inalterato. Un mistero che solamente il bosone di Higgs potrebbe svelare. Al super acceleratore Lhc l’ultima parola.

    GLI ESPERIMENTI DEL CERN- Grazie alla costruzione del Large Hadron Collider saranno, infatti, condotti quattro esperimenti che potranno finalmente chiarire all’uomo di che pasta è fatto.
    L’esperimento Compact Muon Solenoid (Cms), andrà alla ricerca del bosone di Higgs, cercando, inoltre, di spiegare perché la materia ha avuto la meglio sull'antimateria e indagando sulla materia oscura – che occupa il 25% dell’universo.
    Il secondo esperimento, A Toroidal Lhc Apparatus (Atlas) cercherà di verificare se in realtà le forze della natura si limitano a essere una sola, se esistono superparticelle (o particelle ombra di quelle previste dalla fisica attuale) e se esistono anche nuovi mattoni della materia e nuove forze.
    Alice - A Large Ion Collider Experiment - è un apparato alto 16 metri e lungo 20 che studia collisioni fra nuclei di piombo – accelerati nell’Lhc - anziché fra protoni – di cui l’Lhc intende studiare il decadimento. Alice cercherà di ricreare lo stato della materia creatosi subito dopo il Big Bang, quel “brodo” di quark e gluoni esistito per pochi miliardesimi di secondo dopo l’esplosione.
    Ora, grazie alla teoria di Kobayashi e Maskawa, formulata nel 1972, il Modello Standard si è esteso a tre famiglie di quark, sei diverse varietà di “sapori” che si combinano tra loro dando vita a mesoni, protoni e neutroni, e che legandosi ai gluoni formano gli adroni, attraverso un processo di decadimento dalla particella più pesante e instabile a una più leggera: Large Hadron Collider beauty (LHCb), grazie ai suoi 435 metri quadrati di rivelatori, cercherà di capire che cosa è successo fra materia e antimateria subito dopo il Big Bang.

    DELUSIONE ITALIA- C’è un po’ di Italia nel Nobel per la Fisica, nella metà del Premio attribuito a Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa, per essere precisi. Un po’ di Italia c’è, ma come la non pervenuta “particella di Dio” nessuno l’ha vista. I loro esperimenti, condotti a partire dal 1964 si sono basati, infatti, sui lavori pubblicati nel 1963 dal fisico italiano Nicola Cabibbo.
    In realtà, il contributo premiato dall’Accademia Reale Svedese delle Scienze si chiama Ckm ovvero “Matrice Cabibbo-Kobayachi-Maskawa”. Allora, diciamo pure che questa “particella” italiana nella ricerca, pur non essendo così piccola, sia stata deliberatamente ignorata nonostante la comunità scientifica internazionale attribuisca a Cabibbo la paternità delle idee poi sviluppate dai due fisici giapponesi.
    Nemmeno una menzione da parte del Comitato che assegna i premi.
    “Sono lieto – ha dichiarato il presidente dell'Istituto nazionale di Fisica Nucleare (Infn), Roberto Petronzio - che il premio Nobel sia stato attribuito a questo settore della fisica che sta avendo sempre più attenzione da tutto il mondo e dal quale ci aspettiamo fondamentali scoperte che aumenteranno la nostra comprensione sull'universo. Tuttavia – ha sottolineato - non posso nascondere che questa particolare attribuzione mi riempie di amarezza”.
    Per Roberto Petronzio, infatti, Kobayashi e Maskawa “hanno come unico merito la generalizzazione, peraltro semplice, di un'idea centrale la cui paternità è da attribuire al fisico italiano Nicola Cabibbo che, in modo autonomo e pionieristico, ha compreso il meccanismo del fenomeno del mescolamento dei quark (di cui Kobayashi e Maskawa hanno introdotto tre nuove famiglie, n.d.r.) , poi facilmente generalizzato dai due fisici premiati”.
    Praticamente, il plagio di una partitura dell’universo.

    Andrea Camboni
    Ultimo aggiornamento ( giovedì 09 ottobre 2008 )


    al quale, però, l'Accademia delle Scienze di Stoccolma non ha conferito alcun premio Nobel, benché il sopracitato Gabibbo lo meritasse.
    Questo, in passato, è capitato anche ad altri scienziati di sesso maschile (italiani e non).
    Alcuni esempi:
    http://sciencedesk.wordpress.com/2008/10/2...isica-italiana/

    CITAZIONE

    I Nobel mancati della fisica italiana

    La Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma non ha conferito il Premio Nobel per la Fisica 2008 all’italiano Nicola Cabibbo, sebbene abbia: riconosciuto il valore delle ricerche - la rottura spontanea di simmetria e il mescolamento dei quark - cui il fisico teorico romano ha partecipato; premiato i giapponesi Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa che hanno generalizzato i risultati di Cabibbo; riconosciuto il ruolo decisivo del fisico italiano nello sviluppo di queste ricerche (nello scientific background con cui gli scienziati dell’Accademia svedese hanno «giustificato» il premio il nome di Cabibbo ricorre otto volte, proprio come quello di Kobayashi).

    Qualcosa di analogo si è verificato con un altro fisico teorico italiano, Giovanni Jonia-Lasinio, che ha partecipato con un ruolo decisivo alle ricerche teoriche che hanno meritato il premio a Yoichiro Nambu.
    Può succedere. La Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma è un’istituzione seria e prestigiosa, ma - come tutte le cose umane - fallibile. Può incorrere in errori e omissioni. Anche clamorose: Albert Einstein non è mai stato premiato per la teoria della relatività, considerata una delle più grandi conquiste nella storia della scienza e tuttora parte fondante della fisica.

    Ma è anche vero che a Stoccolma c’è come una sorta di specifica sottovalutazione del contributo dato dagli italiani allo sviluppo della fisica. In fondo - dopo Guglielmo Marconi nel 1909 ed Enrico Fermi nel 1938 - nessun italiano ha mai vinto il premio Nobel della fisica per ricerche realizzate in Italia. Emilio Segrè (Nobel 1959) e Riccardo Giacconi (Nobel 2002) sono stati premiati per ricerche svolte negli Stati Uniti e sono, giustamente, considerati Nobel americani. Carlo Rubbia ha vinto il premio Nobel nel 1984 per ricerche realizzate al Cern di Ginevra alla guida di un team internazionale: un premio Nobel «europeo» e non specificatamente italiano.

    Eppure la fisica italiana, soprattutto nel campo delle alte energie, sia a livello teorico che sperimentale, ha dato contributi decisivi. E in almeno quattro occasioni clamorose - prima di quest’anno - non ha ottenuto un meritato premio Nobel.

    La prima di queste occasioni clamorose risale addirittura al 1946, quando Oreste Piccioni, Marcello Conversi ed Ettore Pancini - tre giovani sopravvissuti al disastro della fisica italiana determinato dal fascismo - studiando i raggi cosmici scoprono una nuova particella, il muone, in un esperimento che costituisce l’inaugurazione stessa della fisica delle alte energie (il giudizio è del premio Nobel americano Luis Alvarez).
    La seconda risale ad alcuni mesi dopo, quando un altro italiano - Giuseppe (Beppo) Occhialini, della scuola di Bruno Rossi, che nel 1932 insieme all’inglese Patrick Blackett ha messo a punto preziose tecniche di rilevamento dei raggi cosmici - lavorando a Bristol con Cecil Powell scopre un’altra particella, il pione, prevista dal giapponese Hidechi Yukawa. L’Accademia delle Science di Stoccolma riconosce subito tutta l’importanza di questo filone di ricerca basato sullo studio dei raggi cosmici, conferendo il Nobel per la fisica: nel 1948 a Patrick Blackett per i suoi studi, con la camera di Wilson, della fisica nucleare e dei raggi cosmici; nel 1949 a Hideki Yukawa per la sua teoria dei mesoni; nel 1950 a Cecil Powell, per la scoperta del pione. Ma non trova il modo di premiare né il trio Picconi, Conversi Pancini né Beppo Occhialini (e neppure Bruno Rossi, che della fisica dei raggi cosmici è addirittura il co-fondatore), per i risultati analoghi se non superiori ottenuti.


    Un terzo caso clamoroso è del 1955 e riguarda la scoperta dell’antiprotone. In un esperimento - chiamato Faustina - condotto ancora coi raggi cosmici da un gruppo guidato da Edoardo Amaldi viene rilevato un «evento strano» che sembra coinvolgere una particella prevista dalla teoria ma mai osservata: l’antiprotone. Il gruppo romano si attiva e prende contatti col team di Emilio Segré a Berkeley, in California, dove si sta costruendo un costoso acceleratore proprio con l’obiettivo di rilevare l’antiprotone. Amaldi propone una strategia nuova e aggiuntiva rispetto a quella degli americani di Segré, che viene accettata. L’esperimento italiano prende il nome di Letizia e viene realizzato insieme a quello americano, anche se fornisce i risultati un po’ dopo quello americano. Entrambi - Letizia e l’esperimento di Segré - confermano che l’antiprotone esiste e che Faustina l’aveva probabilmente incontrato per prima. Gli americani, tuttavia, rifiutano di firmare un articolo congiunto con gli italiani e nel 1958 la Reale Accademia delle Scienze premia solo loro, dimenticandosi di Amaldi.

    La quarta occasione risale all’inizio degli anni ‘70. Quando un fisico teorico austriaco ormai italianizzato - Bruno Touschek - propone l’idea di costruire un nuovo tipo di acceleratore di particelle, l’anello ad accumulazione, in cui particelle e antiparticelle vengono fatte correre lungo un anello in direzione opposte e poi fatte scontrare. Nello scontro le particelle si annichilano e producono energia da cui nascono, sulla base delle leggi quantistiche, nuove particelle. Il prototipo della macchina di nuova concezione, AdA, viene realizzato a Frascati, da un gruppo di giovani dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, tra cui un personaggio ben noto ai lettori dell’Unità, Carlo Bernardini. La macchina inaugura la «via italiana» alla fisica sperimentale delle alte energie.

    Più tardi gli italiani costruiranno Adone, una macchina cui sfugge per poco il rilevamento della particella J/?. Nel 1974, a Stanford costruiscono Spear: un anello di accumulazione del tutto simile ad Adone, solo un po’ più potente. L’acceleratore, sotto la guida di Burton Richter, trova la particella J/?. Nei medesimi giorni a Brookhaven il gruppo di Samuel Ting realizza, con un altro tipo di acceleratore, la medesima scoperta. Ai due, Richter e Ting, verrà conferito nel 1976 il Premio Nobel. Ma ancora una volta nessun riconoscimento viene dato agli italiani. Bruno Touschek resta amareggiato. Gli italiani e, lui per primo, hanno aperto una nuova strada nella fisica delle alte energie e altri a Stoccolma ne traggono i benefici. Trova ingiusto, in particolare, che Richter sia stato premiato per aver «amministrato l’idea (dell’anello di accumulazione) senza averla mai avuta».

    È avvenuto, dunque, di frequente in passato. È avvenuto di nuovo quest’anno. La fisica italiana a Stoccolma viene piuttosto sottovalutata. Questo, ormai, è un fatto. Resta da spiegare perché.

    Di Pietro Greco

    Un altro studioso al quale non fu conferito il Premio Nobel, è Oswald Theodore Avery.
    http://it.wikipedia.org/wiki/Oswald_Theodore_Avery

    CITAZIONE
    Repubblica 28.12.04
    TUTTA LA VITA IN UN'ELICA
    Viaggio nella storia e nei segreti del DNA Un saggio di James Watson, che con Francis Crick, scoprì la struttura del codice genetico
    Fin dalle origini della sua storia cosciente, l'uomo aveva cercato la chiave di quel mistero
    Sui due scienziati ebbe influenza Schrödinger, padre della meccanica quantistica
    Compreso l'alfabeto, si è poi passati a leggere l'intero libro. Vale a dire, il genoma
    di PIERGIORGIO ODIFREDDI*

    *docente dell'Università di Torino,
    membro del Comitato di Presidenza
    dell'Unione degli atei italiani (UAAR)


    Il 28 febbraio 1953, benché fosse sabato, il ventitreenne James Watson si recò in laboratorio la mattina presto, ed ebbe l'intuizione della sua vita: rimescolando i quattro tipi di tessere di un puzzle tridimensionale di cartone sul quale stava lavorando, che corrispondevano alla struttura chimica delle quattro lettere (A, T, G e C) dell'alfabeto del DNA, si accorse che esse combaciavano perfettamente a coppie (A con T, e G con C).
    A metà mattina il trentasettenne Francis Crick raggiunse il compagno di ricerca, e comprese immediatamente che la sua scoperta significava che il DNA aveva una struttura a doppia elica, costituita da due catene di lettere orientate in direzione opposta. All'ora di pranzo i due si recarono al loro solito pub, l'Eagle, e Crick annunciò modestamente ai commensali che, insieme a Watson, aveva appena scoperto il «segreto della vita».
    Fin dalle origini della sua storia cosciente l'uomo aveva infatti cercato di rispondere alla domanda più fondamentale che poteva porsi: . La «Cosa c'è di misterioso, magico, o addirittura divino, nella vita?». E la risposta che Watson e Crick avevano appena trovato era: «Niente!». La vita risultava infatti non essere altro che il prodotto di normali processi fisici e chimici, e per spiegarla non era neppure stato necessario inventare una nuova scienza, come qualcuno aveva supposto o temuto: bastava quella che già c'era.
    Per metabolizzare una simile risposta, che ci dovrebbe finalmente liberare dalla mitologia che per millenni ha avvolto nelle sue nebbie metafisiche il problema della vita, ci vorranno decenni. Lo dimostrano, ad esempio, le parole con cui il presidente Clinton annunciò ancora dalla Casa Bianca, il 26 giugno 2000, il completamento della prima bozza del genoma umano: «Oggi apprendiamo il linguaggio con il quale Dio creò la vita». E lo dimostrano le mille polemiche che accompagnano il DNA in ogni sua manifestazione, dagli Ogm alle staminali.
    In attesa che l'ora di DNA sostituisca, o almeno si affianchi, all'ora di religione nelle scuole, proviamo a ripercorrere, da un lato, la storia delle conquiste teoriche di mezzo secolo di biologia molecolare, e a dispiegare, dall'altro lato, il ventaglio delle applicazioni pratiche che la conoscenza del DNA ha reso possibili. Ci guida in questo compito uno dei più bei libri di divulgazione scientifica di questi anni, appena uscito in Italia: DNA. Il segreto della vita (Adelphi, pagg. 462, euro 39,50), che Watson stesso ha scritto per celebrare il cinquantenario della sua scoperta.
    Anche se, parlando di libri, bisognerebbe partire da Che cos'è la vita di Erwin Schrödinger (Adelphi, 1995): un testo di uno dei padri della meccanica quantistica, che ebbe un'influenza decisiva non solo per Watson e Crick, ma per tutta una generazione di biologi. Fu in quel libretto del 1944 che venne divulgata per la prima volta l'idea che si doveva pensare alla vita come a un processo di archiviazione e di trasmissione dell´informazione biologica, compressa in quello che Schrödinger chiamò il «codice ereditario». Capire che cosa fosse la vita richiedeva dunque l'identificazione del supporto e la decifrazione del linguaggio di questo codice.
    In quegli anni si pensava ancora che il supporto del codice genetico fossero le proteine, e il suo alfabeto i 20 amminoacidi.
    Il DNA era stato scoperto nel 1869 da Friedrich Miescher, in un poco romantico studio delle bende impregnate di pus fornitegli da un ospedale. Negli anni '30 si era capito che era costituito da una lunga molecola contenente quattro basi chimiche: le «lettere» A, T, G e C alle quali abbiamo già accennato. E nel 1944 Oswald Avery aveva finalmente dimostrato che era proprio questa molecola a contenere l'informazione genetica: poiché però la scoperta fu accettata dai genetisti ma avversata dai biochimici, Avery morí nel 1955 senza aver ricevuto il premio Nobel che meritava.
    Watson e Crick ricevettero il loro nel 1962, e la doppia elica contribuí a portare il DNA alla ribalta. A scanso di equivoci, l´idea che la molecola fosse costituita da un'elica non era affatto nuova: il grande chimico Linus Pauling, vincitore di ben due premi Nobel (per la chimica e la pace), aveva annunciato proprio nel 1953 un modello a tripla elica, poi risultato sbagliato. Anche Maurice Wilkins era convinto che si trattasse di un'elica, e cercò di determinarla non mediante modelli, come Watson e Crick, ma attraverso la diffrazione a raggi X: le foto del suo laboratorio fornirono una conferma della struttura, e Wilkins condivise con loro il premio Nobel nel 1962.
    Prima ancora che a Watson, Crick e Wilkins, il premio era andato nel 1959 ad Arthur Kornberg, per aver scoperto nel 1957 un enzima, detto DNA polimerasi, che lega fra loro le due eliche. Quanto alla loro separazione, che Crick aveva supposto avvenisse come in una cerniera lampo, e stesse alla base del processo di copiatura dell'informazione genetica, essa fu confermata nel 1954 da Matt Meselson e Frank Stahl, in quello che venne definito «il più bell'esperimento della biologia».
    Una volta compresi i dettagli della struttura della doppia elica, rimaneva da decifrare il codice genetico: come vengono specificati, usando un alfabeto di sole quattro lettere, i venti amminoacidi di cui sono costituite tutte le proteine? Nel 1961 Sydney Brenner e Crick scoprirono che inserire o eliminare una o due lettere nel DNA produce un effetto devastante, ma inserirne o eliminarne tre no, e capirono che nel primo caso si riscrivono tutte le parole, mentre nel secondo se ne perde solo una: le parole del codice genetico, dette «codoni», sono dunque di tre lettere. E poiché con un alfabeto di quattro lettere si possono fare 64 codoni distinti, il codice dev'essere ridondante.
    Nel 1961 Marshall Nirenberg scoprì che uno dei più semplici segmenti di DNA, costituito di sole A, produceva un particolare amminoacido (la fenilalanina): il codone corrispondente, dunque, doveva essere AAA. Insieme a Gobind Khorana, che mise a punto tecniche chimiche per fabbricare segmenti di DNA consistenti di un solo codone, Nirenberg riuscí nel giro di qualche anno a decifrare tutto il codice, e i due ottennero il premio Nobel nel 1968.
    Il passaggio dal DNA alle proteine non è però diretto, bensí mediato da una seconda forma di acido nucleico, chiamata RNA. Nel 1959 Crick proclamò il «dogma centrale» della biologia: l'informazione genetica va a senso unico, dal DNA all´RNA alle proteine. Per spiegare questo strano meccanismo, in cui l´uovo (il DNA) viene necessariamente prima della gallina (le proteine), Crick ipotizzò che l'RNA fosse stata la prima molecola genetica, in un'epoca in cui la vita era basata solo su di esso: il DNA sarebbe uno sviluppo successivo, probabilmente in risposta all´instabilità dell'RNA. Nel 1983 Tom Cech e Sidney Altman diedero la prima conferma che l'RNA era una sorta di «uovo-gallina» autocatalizzante, e ottennero il premio Nobel per la chimica nel 1989.
    Una volta compreso l'alfabeto e le parole del codice genetico, rimaneva da leggere l'intero libro: il genoma delle varie specie, uomo compreso. I capitoli di questo libro si chiamano geni, e la scoperta di come si attivano e si disattivano in un batterio intestinale (E. coli) valse il premio Nobel del 1965 a Jacques Monod e François Jacob: una coppia la cui popolarità rivaleggia con quella di Watson e Crick, grazie anche ai loro rispettivi libri Il caso e la necessità (Mondadori, 1970) e La logica del vivente (Einaudi, 1971).
    A sequenziare completamente il primo genoma, quello del virus PhiX174, fu Frederick Sanger, che vinse così il suo secondo premio Nobel in chimica nel 1980 (il primo l'aveva vinto nel 1958 per la sequenziazione della prima proteina, l'insulina). Al sequenziamento nel 1997 del primo genoma batterico, l'E. coli, seguì nel 1998 quella del verme C. elegans, che valse a John Sulton il premio Nobel nel 2002: benché composto di sole 959 cellule, e non più grande di una virgola, il verme ha ben 19.000 geni! Il genoma umano è stato invece sequenziato da un consorzio pubblico, inizialmente diretto da Watson, e da una compagnia privata, la Celera di Craig Venter: benché enormemente più grande e complesso, l'uomo ha solo 25.000 geni, pochi più del verme!
    Ma, come direbbe Thomas Eliot, quella che sembra la fine della storia, è invece soltanto un inizio. Ad attendere la biologia molecolare sono ora infatti i tre grandi progetti della genomica (comprendere la funzione dei singoli geni e la loro azione congiunta), della proteomica (sequenziare e studiare le proteine), e della trascrittomica (determinare quali geni siano attivi in una data cellula), con l'obiettivo di capire nei dettagli l´intero meccanismo della vita, dalla prima cellula all'intero organismo, per la maggior gloria dello spirito umano.

    Silverback 18/10/2004, 01:55
    http://ultimefile.forumfree.net/?t=2007445&st=180
    CITAZIONE
    La storia dei due acidi nucleici, l'acido desossiribonucleico, o DNA, e l'acido ribonucleico, o RNA, è la storia della biologia molecolare.
    Questa disciplina scientifica è nata indiscutibilmente con la scoperta della doppia elica del DNA a opera di James Dewey Watson e Francis Henry Compton Crick nel 1953, anche se non è noto con certezza chi abbia usato per primo il nuovo termine. In effetti, una delle prime menzioni scritte la si trova nel titolo di una "Harvey Lecture", Avventure in biologia molecolare, tenuta nel 1950 da William T. Astbury, un eclettico strutturista scozzese.
    La biologia molecolare è una scienza che studia le strutture del DNA e dell'RNA, i processi biochimici nei quali sono coinvolti i due acidi nucleici e, attraverso questi processi, l'organizzazione e i meccanismi di funzionamento dell'intero apparato cellulare, dalla sua biochimica alla sua fisiologia, dalla sua patologia alla sua riproduzione, a tutta la biologia nella sua formulazione più moderna.
    La scoperta degli acidi nucleici è tutta da attribuire a un giovane ricercatore, figlio e nipote d'arte, che rinunciò alla carriera medica a causa di una leggera debolezza d'udito e che decise di dedicarsi allo studio della fisiologia delle cellule linfatiche, e in particolare all'analisi delle loro proteine. Era il 1869 e Johann Friedrich Miescher, venticinquenne e da poco laureatosi in medicina a Basilea, nel tentativo di separare dal nucleo i componenti del protoplasma (oggi chiamato citoplasma) s'imbatté in un composto che doveva in seguito risultare decisamente diverso dalle proteine che stava cercando.
    Quel composto era particolarmente abbondante nel nucleo, conteneva fosforo e, in analogia con il fosfatide lecitina da poco scoperto nel laboratorio del suo mentore, Hernst Felix Hoppe-Seyler dell'Università di Tubinga, fu battezzato "nucleina".
    Purtroppo né lo stesso Miescher né i suoi contemporanei seppero apprezzare pienamente il possibile ruolo della nucleina nella trasmissione dei caratteri ereditari; le si attribuì piuttosto una funzione di immagazzinamento del fosforo cellulare e non si escludeva del tutto che si trattasse di una miscela meccanica di fosfati e proteine.
    Erano infatti le proteine che continuavano ad attrarre la massima attenzione, in quanto componenti principali della cellula e quindi più validi candidati alla funzione di vettori molecolari dell'informazione biologica. Che nel nucleo vi fossero anche composti diversi dalle proteine venne confermato nei vent'anni successivi: nel 1889 Richard Altmann propose il termine più specifico di "acido nucleico".
    Miescher era morto da cinque anni, senza che i suoi contemporanei gli riconoscessero meriti particolari. Tant'è che nel discorso funebre il suo collega E. Wille si era ritenuto quasi in dovere di scusare il compianto:"Se Miescher non riuscì a raggiungere risultati altissimi, i limiti vanno cercati in una certa mancanza di organizzazione e di determinazione del suo carattere".
    E' straordinaria l'analogia con la sorte dell'altro grande padre della biologia moderna, Gregor Mendel, che i suoi confratelli agostiniani di Brunn (ora Brno) ricordarono in morte per tanti pregi, ma non per aver scoperto il meccanismo di trasmissione dei geni e avere così fondato la genetica. E come i monaci di Brunn, ma certo con minore giustificazione, un'intera generazione di ricercatori continuò a ignorare le scoperte di Mendel fino a quando Ugo De Vries, Erich von Tschermack e Carl Correns (l'unico che secondo Thomas Hunt Morgan avrebbe potuto riscoprirle in modo del tutto indipendente) le riproposero all'attenzione degli studiosi. Era il 1900.
    Da allora inizia una sorta di Medioevo per gli acidi nucleici: mentre la genetica esplode con il recupero delle leggi di Mendel, la scoperta della meiosi e della mitosi, l'identificazione dei cromosomi e degli errori congeniti del metabolismo e la mutagenesi, lo studio degli acidi nucleici langue. E' rimarchevole che sino agli anni quaranta non si avesse alcuna idea della natura delle molecole responsabili dell'ereditarietà biologica e che sino al 1929 non fosse chiara la distinzione tra DNA ed RNA.
    La stessa terminologia rifletteva questa confusione. Il DNA era considerato l'acido nucleico degli animali, l'RNA quello delle piante.
    Al primo si dava infatti il nome di acido "timo-nucleico", dalla ghiandola (in genere ricavata dal vitello) più frequentemente usata come sorgente di DNA. L'RNA veniva allora anche chiamato acido "tritico-nucleico", oppure del lievito, per il fatto che i vegetali ne parevano particolarmente ricchi. Anche la struttura attribuita allo zucchero considerato caratteristico del DNA era inizialmente sbagliata.
    Phoebus A. T. Levene e collaboratori del Rockefeller Institute di New York, uno dei centri più importanti per lo studio degli acidi nucleici fin dall'inizio del secolo, ritenevano che fosse un esosio e non un pentosio.
    Fu quello stesso gruppo di ricerca del Rockefeller Institute a sostenere con particolare vigore la teoria del "tetranucleotide", originariamente proposta, poco prima della fine del XIX secolo, da Albrecht Kossel e A. Neumann e successivamente ripresa da molti ricercatori, tra i quali il giapponese H. Takahashi.
    Secondo questa teoria, gli acidi nucleici erano composti da solo quattro nucleotidi (due purinici e due pirimidinici) e quindi, data la loro monotona struttura e le loro ridotte dimensioni, non potevano rappresentare il supporto molecolare dell'ereditarietà biologica.
    E' degno di nota che proprio in un laboratorio vicino a quello di Levene, nello stesso Rockefeller Institute, Oswald T. Avery, Colin MacLeod e Maclyn McCarty si stavano sforzando di dimostrare che il princìpio trasformante, il pabulum che il medico inglese Fred Griffith nel 1928 aveva identificato come responsabile della conversione di cellule di Diplococcus pneumoniae non virulente in virulente, era il DNA.
    E' stato affermato, e con qualche ragionevolezza, che l'ipotesi del tetranucleotide sia stata una delle remore più gravi all'accettazione dell'importanza del DNA nella genetica. Nonostante ciò, a credito di Levene va ricordata l'introduzione dei termini "nucleotide" e "nucleoside", la scoperta che i nucleotidi erano legati fra loro attraverso legami fosfodiesterici tra gli OH in posizione 5' e 3', come fu in seguito confermato dal chimico Alexander R. Todd (poi laureato Nobel dai reali svedesi e nominato baronetto da quelli inglesi).
    A riguardo è interessante ricordare che nello sviluppo iniziale della chimica degli acidi nucleici ebbero un ruolo fondamentale le ricerche di natura bellica sugli alogenoderivati del fosforo, comune base dei gas nervini.
    Fu soprattutto grazie alle scoperte di Levene e in considerazione della presenza nell'RNA di uno zucchero (il ribosio) con un OH in posizione 2' (che impedisce a sequenze complementari di assumere una struttura a doppia elica del tipo B del DNA, conferendo una maggiore disponibilità a interazioni terziarie e a reazioni chimiche anche di tipo enzimatico), come anche di una base, l'uracile, diversa dalla corrispondente pirimidina (la timina, caratteristica del DNA), che si arrivò a distinguere il DNA dall'RNA. Ma per questo si dovette attendere il 1950, allorché l'inglese J.M. Gulland propose in modo esplicito l'esistenza entro le cellule viventi di due diversi acidi nucleici.
    Si arriva così alla vigilia della scoperta della doppia elica del DNA: da sei anni Avery e collaboratori avevano pubblicato il loro classico lavoro in cui si dimostrava che il princìpio trasformante era il DNA, ma l'impatto sugli addetti ai lavori era stato minimo, anche se ad Avery non mancarono onori e riconoscimenti (gli fu attribuita dalla Royal Society inglese la prestigiosa medaglia Copley).
    Ancora una volta si ha una dimostrazione della variabilità delle reazioni del mondo scientifico all'annuncio di grandi scoperte.
    Nella seconda metà degli anni quaranta la comunità dei ricercatori non credette al lavoro di Avery e dei suoi collaboratori.
    Per quanto sempre meno degradato (grazie al migliorare delle tecniche estrattive), il DNA che all'epoca i biologi molecolari riuscivano a purificare dalle cellule era ancora troppo piccolo rispetto alle dimensioni delle proteine per le quali avrebbe dovuto codificare, ed era a queste che si continuava ad attribuire un ruolo primario nella trasmissione dei caratteri ereditari. Fu un collega di Avery al Rockefeller Institute, R. Hotchkiss, a dimostrare che si poteva trasformare geneticamente il Diplococcus anche per altri caratteri, come la resistenza agli antibiotici.
    Grazie a tale scoperta venne eliminato il concetto, peraltro nebuloso, di pabulum, difficilmente conciliabile con il conferimento di fenotipi diversi come la virulenza e la resistenza agli antibiotici, e fu al contempo confermata l'importanza del DNA nel meccanismo dell'ereditarietà.
    Il suo riconoscimento divenne totale ed esplicito solo dopo il famoso esperimento, detto del frullatore, con cui Alfred D. Hershey e Martha Chase dimostrarono che fra i componenti di un fago di Escherichia coli (il T2, composto in parti uguali da DNA e proteine) bastava il solo DNA per infettare una cellula batterica e farle produrre un centinaio di particelle fagiche complete.
    Non si trattava certo dell'esperimento migliore tra i tanti che consacrarono il DNA, come molecola portatrice dell'ereditarietà biologica. Lo ammise lo stesso Hershey, ma era l'anno fatidico in cui James Watson e Francis Crick dovevano proporre il modello del DNA a doppia elica, ispirato dal lavoro di tanti ricercatori (Erwin Chargaff, Rosalind Franklin e Maurice Wilkins, tanto per citarne tre; e gia che ci sono faccio notare che non solo alla Franklin ma anche ad Avery non fu conferito il premio Nobel).
    Da allora il DNA e l'RNA hanno acquistato un interesse non facilmente uguagliabile nella storia delle scienze per varietà e per profondità.
    Questo interesse è diretto sia verso studi di base, teorici e sperimentali, sia verso applicazioni pratiche nei più disparati settori, dalla medicina alla produzione di energia, all'ecologia.
    Basti ricordare che dagli sviluppi della biologia molecolare degli acidi nucleici negli anni settanta sono nate l'ingegneria genetica e le biotecnologie.
    Ci sono ragioni per ritenere che molti, se non tutti, i segreti della biologia molecolare siano racchiusi nella struttura, o meglio nelle "strutture" del DNA. La doppia elica descritta da Watson e Crick nel 1953 come forma B si sta rivelando polimorfica: accanto alle forme tradizionali A e B si sono venute caratterizzando forme come la G (presente nei telomeri dei cromosomi eucariotici e così chiamata per l'abbondanza di residui G in un filamento); la H, tripla elica composta da due filamenti di pirimidine e uno di purine alternate fra loro e così chiamata dall'iniziale della parola inglese hinge, "perno", che questa struttura ricorda, e anche per indicare la sua dipendenza da ioni idrogeno per la sua stabilità; e soprattutto la Z, con la sua elica sinistrorsa e l'andamento a zig zag del legame fosfodiesterico.
    Altrettanto ricche, anche se per ora meno conosciute, sono le strutture dell'RNA: non si può infatti ignorare che sono state le ricerche sull'RNA a contribuire in modo determinante allo sviluppo della biologia molecolare. E' dallo studio delle piccole molecole degli RNA di trasferimento (tRNA) che si sono avviati filoni di ricerca quali il sequenziamento degli acidi nucleici, per anni limitato ai soli tRNA.
    Il primo gene sequenziato è stato infatti quello di un tRNA, il più abbondante fra quelli per l'alanina nel lievito, risolto e interpretato correttamente da Robert Holley nel 1965; e i primi geni sintetici sono stati quelli di due tRNA, prodotti da Har Gobind Khorana a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
    Insieme con Marshall Nirenberg, Khorana e Holley ricevettero nel 1968 il Nobel per i loro contributi alla decifrazione del codice genetico.

     
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  2. bartali
     
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    CITAZIONE (silverback @ 24/2/2009, 19:17)
    Di norma, la non assegnazione di un Premio Nobel, non dipende affatto dal possedere due cromosomi X anziché un X e un Y...

    Appunto! Direi che c'è un abisso tra dire "X donne non hanno ricevuto un nobel (forse) meritato" e dire "X donne non hanno ricevuto un nobel perché donne". Le nostre truffaldine ideologiche evidentemente hanno problemi di conflitto neuronale a causa della maggiore comunicazione tra i due emisferi cerebrali che impedisce loro di rilevarne la sostanziale differenza.

    Nell'attuale situazione i miei dubbi vanno in direzione contraria. Un nobel dato ad una donna sarà realmente meritato o sarà frutto della solita tiritera vittimista-rivendicatrice che domina incontrastata nei media e nella mente della gente passiva?
     
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  3. silverback
     
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    LE SCIENZE dossier, N° 15 - Primavera 2003
    Una conversazione con James D. Watson
    di John Rennie (pag. 4-7; in estrema sintesi).


    John Rennie:
    Ci sono sempre state controversie riguardo al fatto
    che Wilkins vi abbia mostrato i cristallogrammi ottenuti
    dalla Franklin senza il suo consenso, offrendo quindi
    a Lei e a Crick un indizio importante sulla struttura del
    DNA. In retrospettiva, non sarebbe stato più opportuno
    che il premio Nobel fosse assegnato, oltre a voi due,
    alla Franklin anziché a Wilkins?


    James D. Watson:
    Non penso. Wilkins ci diede l'immagine cristallografica
    della forma A e lei ci fornì quella della forma B. Perciò
    si potrebbe dire che in una società ideale, perfetta, loro
    avrebbero avuto il Nobel per la chimica e Crick e io quello
    per la biologia. Sarebbe stato un buon modo per dare
    un riconoscimento a tutti e quattro. Ma nessuno la pensò
    così. Noi siamo molto famosi perché il DNA lo è. Se Rosalind
    avesse parlato con Francis a partire dal 1951 e gli avesse
    mostrato i suoi dati, sarebbe stata lei a risolvere la struttura.
    E adesso sarebbe famosa lei, non noi.


    --------------------------------------------------------

    Origine della vita e
    controllo dell'evoluzione

    di Vittorio Sgaramella* (pag. 16-21).

    Maurice Wilkins (pag. 19).
    Quando si parla di doppia elica, tutti pensano
    immediatamente al binomio Watson e Crick.
    Eppure anche Wilkins svolse un ruolo fondamentale
    nella scoperta della struttura del DNA fornendo con
    i suoi esperimenti di diffrazione dei raggi X la prova
    dell'esistenza della doppia elica. Giustamente quindi
    condivise con i due colleghi divenuti più famosi il premio
    Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1962, mentre
    la sua brava collaboratrice Rosalind Franklin, morta
    quattro anni prima, non venne neppure menzionata.
    Nato nel 1916 a Pangaroa, in Nuova Zelanda, Wilkins
    si laureò in fisica nel 1938 a Cambridge, in Inghilterra,
    e poi si trasferì all'Università di Birningham dove
    ottenne il dottorato lavorando con John T. Randall
    alla teoria della fosforescenza e della luminescenza.
    Durante la seconda guerra mondiale lavorò al
    perfezionamento degli schemi radar a tubo catodico
    e poi alla separazione mediante spettografo di massa
    degli isotopi dell'uranio da usare per la bomba atomica.
    Nel 1946 si trasferì con Randall al King's College di
    Londra, presso cui entrò a far parte del Medical Research
    Council dove diresse l'unità di ricerca di biofisica, la prima
    in Inghilterra. Nel 1970 divenne professore di biofisica e
    direttore di Dipartimento, sempre al King's College.
    Nel 1946, quando non si sapeva ancora che il DNA fosse
    il responsabile del codice genetico, Wilkins cominciò a
    occuparsi del DNA perché era una molecola facilmente
    isolabile e poteva essere studiata all'ultravioletto.
    Solo casualmente, osservando al microscopio gel di
    DNA, si accorse che era facile staccarne sottili fibre con
    un bastoncino di vetro. L'uniformità delle fibre faceva
    pensare che il DNA avesse una struttura regolare -
    cristallina o quasi cristallina - che poteva essere studiata
    con la diffrazione dei raggi X, analogamente a quanto
    faceva John D. Bernal con le proteine. Le chiare figure
    di diffrazione che ottenne confermarono la regolarità delle
    molecole di DNA e fecero pensare che esse fossero elicoidali.
    Egli vide successivamente che l'elica aveva un diametro
    di 2 nanometri, un passo di circa 3,4 nanometri e che vi
    erano gruppi fosforici disposti all'esterno dell'unità strutturale.
    Le misure della densità indicavano inoltre che vi erano due
    molecole coassiali e suggerivano che le basi azotate fossero
    disposte in pile al centro dell'elica. Esattamente quello che
    Watson e Crick avevano proposto con i loro modelli molecolari
    costruiti in base a calcoli teorici.




    * Vittorio Sgaramella, insegna biologia molecolare all'Università della Calabria, a Cosenza. E' stato ricercatore e visiting professor all'Università del Wisconsin, al MIT e alla Stanford University. Ha collaborato con il Nobel H.G. Khorana alle ricerche sul primo gene sintetico.
     
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  4. silverback
     
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    LA DOPPIA ELICA
    James D. Watson

    Pag. 209-215.
    AARON KLUG
    Rosalind Franklin e la scoperta della struttura del DNA (1968).*


    Rosalind Franklin ha dato alcuni contributi fondamentali
    alla soluzione della struttura del DNA. Ha scoperto la forma
    "B", ha riconosciuto il fatto che esistono due stati diversi
    della molecola del DNA, ha definito le condizioni per la transizione
    tra le due forme. Sin dall'inizio, si è resa conto che il modello
    corretto doveva avere i gruppi fosfatici all'esterno della molecola.
    Ha posto le basi per una analisi quantitativa delle figure di
    diffrazione e, dopo la formulazione del modello di Watson e Crick,
    ha dimostrato che una doppia elica era consistente con le
    figure di diffrazione a raggi X sia per la forma "A" che per quella "B".
    Il resoconto che Watson fa ne La doppi elica non pretende di
    essere più che un aspetto della storia, mentre l'articolo di L.D. Hamilton
    (DNA: Modelli e realtà, "Nature", 18 maggio 1968) non rende
    giustizia al lavoro della Franklin.
    L'importanza del lavoro della Franklin è stata sottovalutata, almeno
    in parte, a causa della morte prematura. Dato che io, in quanto suo
    ultimo e forse più vicino collega scientifico, sono in condizione di riempire
    questo vuoto, ho cercato qui di raccontare ciò che la Franklin stava
    facendo nel periodo precedente la scoperta del modello di Watson e Crick,
    per porre così la questione della struttura elicoidale nel suo vero
    contesto e per sintetizzare i contributi da lei dati alla dimostrazione
    di quella struttura. Non ho trattato i contributi ben noti dati dagli altri
    protagonisti della storia, tranne che quando avevano direttamente a
    che fare con il suo lavoro.

    La questione dell'elica

    Watson e Hamilton hanno sottolineato entrambi la posizione "anti-elicoidale"
    della Franklin, senza spiegarne il contesto. La Franklin aveva deciso che
    c'erano abbastanza piani di riflessione discreti nella figura di diffrazione
    della forma "A" per poter dirimere la questione dell'esistenza di eliche
    (in questa forma del DNA) con un'analisi cristallografica oggettiva, senza
    dover fare alcuna ipotesi. In realtà, se c'è una fase del lavoro della Franklin
    che può essere chiamata "anti-elicoidale", ce n'è anche una precedente
    "pro-elicoidale". La si può rintracciare sia nel rapporto ufficiale del suo primo
    anno di lavoro, rapporto presentato nel febbraio 1952 per ottenere la borsa
    di studio Turner-Newall, sia nei suoi appunti per un seminario al King's
    College nel novembre 1951 - il seminario cui prese parte Watson e di cui
    egli parla nel suo libro. Nel rapporto ella afferma che le caratteristiche generali
    della figura di diffrazione della forma cristallina ("A") - e anche quelle della
    forma idrata (più tardi conosciuta come "B") - suggeriscono una struttura
    elicoidale e che la separazione tra gli strati della struttura "A" (27 A)
    probabilmente corrisponde al passo dell'elica. Inoltre, fa notare che la cella
    unitaria della struttura "A" ha una proiezione quasi esagonale; ciò suggerisce
    che la struttura sia costruita a partire da unità quasi cilindriche, e cioè da
    molecole del tipo di quelle che sarebbero prodotte dall'agglomerazione di un
    certo numero di catene coassiali. Il rapporto conclude come segue:"I
    risultati suggeriscono una struttura elicoidale ( che deve essere strettamente
    connessa) costituita probabilmente da 2, 3 o 4 catene coassiali di acido
    nucleico per unità elicoidale e con i gruppi fosfatici verso l'esterno".

    Bisogna tuttavia ricordare che le figure di diffrazione che la Franklin studiava,
    erano fotografie di filamenti o di rotazione, nelle quali i dati intrinsecamente
    tridimensionali erano ridotti a due sole dimensioni, il che implica certe possibili
    ambiguità nella caratterizzazione delle figure stesse. Andando avanti con la
    raccolta di dati quantitativi, la Franklin notò, nel 1952, che avrebbe potuto
    esserci una asimmetria molto definita nel fattore di forma delle molecole
    cristalline e quindi nella stessa struttura. Se questo fosse risultato vero, la
    struttura non avrebbe potuto essere elicoidale, a meno che le eliche non
    risultassero considerevolmente distorte. Sembra anche che la Franklin sia stata
    molto influenzata - nel cambiamento di opinione circa la struttura elicoidale -
    dalla scoperta di una doppia orientazione dei cristalliti in filamento nella forma
    "A". Le sembrava improbabile che potesse verificarsi questo fenomeno, se le
    singole molecole avessero avuto un alto grado di simmetria rispetto all'asse del
    filamento. Inoltre, aveva osservato precedentemente che, durante il cambiamento
    "da cristallino a idrato" (cioè, da "A" a "B" nella terminologia usata più tardi),
    aveva luogo un considerevole aumento nella lunghezza dei filamenti; nel
    rapporto annuale che stiamo qui considerando, affermò prudentemente:
    "L'elica nello stato idrato è quindi presumibilmente non identica
    a quella dello stato cristallino".

    Con questa premessa, era del tutto naturale - nel
    contesto delle nuove osservazioni sperimentali - pensare che la struttura "A"
    avrebbe potuto essere non elicoidale, ed esaminare quindi strutture non
    elicoidali. Le ipotesi di partenza della Franklin possono essere sintetizzate
    come segue: per quanto vi fossero chiaramente strutture elicoidali nella struttura
    "B", esse avrebbero potuto essere così distorte - o anche distrutte - dai legami
    intermolecolari nella struttura cristallina "A" che era necessario considerare
    strutture non-elicoidali. Ma una struttura "A" plausibile avrebbe dovuto soddisfare
    certi criteri, definiti in base alle sue stesse osservazioni sulla transizione da "A"
    a "B": e cioè che, indipendentemente da quanto può accadere alle catene, la
    trasformazione doveva essere reversibile; inoltre i fosfati dovevano in ogni caso
    restare all'esterno della struttura, e cioè verso l'acqua.
    Le sue note di laboratorio dell'inverno 1952-53, la mostrano intenta a considerare
    vari tipi di strutture, tra cui lamine e aste, fatte di due catene che si sviluppano
    in direzioni opposte con basi interconnesse e anche una struttura pseudo-elicoidale
    con gruppi fosfatici non equivalenti, che rassomigliava in proiezione a un otto.
    Nel gennaio 1953 la Franklin cominciò a costruire modelli, per limitare le strutture
    a quelle possibili dal punto di vista stereochimico, cercando di accordarle alla
    funzione tridimensionale di Patterson per la forma "A", che era stata calcolata
    nel 1952. Da questa funzione aveva imparato che c'erano gruppi fosfatici
    disposti in certe direzioni a distanza di 5,7 A l'uno dall'altro. Ciò che la funzione
    di Patterson - per la sua stessa natura - non poteva chiarirle era se queste
    direzioni si riferissero a fosfati di una stessa catena o di catene differenti.
    Nessuna delle strutture prescelte, tuttavia, si accordava con la funzione di
    Patterson, e non a caso. Inoltre, alcune potevano essere escluse per quel che
    riguardava la forma "B", anch'essa costantemente tenuta d'occhio.
    Nelle sue note, la vediamo passare continuamente dai dati di una delle forme
    a quelli dell'altra, applicando la teoria della diffrazione elicoidale alla forma "B"
    e cercando di adattare la funzione di Patterson alla forma "A". La vediamo
    anche cercare di adattare le basi al modello, usando i dati analitici di Chargaff,
    e ritornare continuamente alla densità e al contenuto di acqua delle due forme,
    informazione questa mediante la quale tentava di verificare il numero delle
    catene. Allo stesso tempo, cercava di risovere la funzione di Patterson
    direttamente col metodo di sovrapposizione.
    A febbraio, la Franklin sapeva già che c'erano due catene per cella unitaria
    nella struttura "A" e stava considerando la possibilità di una struttura con
    undici nucleotidi per catena. Tuttavia, per quanto sapesse che c'erano dieci
    nucleotidi per catena elicoidale nella struttura "B", e che molto probabilmente
    c'erano due catene di questo tipo nell'elica "B", non vide la relazione tra
    queste due strutture
    , forse perché non riusciva a liberarsi dal suo
    profondo impegno a risolvere la funzione di Patterson direttamente, senza
    ipotesi a priori, scelta che richiedeva la considerazione di strutture
    non elicoidali. La risposta - alla quale non arrivò prima che il modello di
    Watson e Crick venisse proposto
    - è naturalmente sorprendentemente
    semplice. Ambedue le strutture sono elicoidali e sono collegate in un modo
    semplice, come ho dimostrato.
    Naturalmente, non è possibile dire che cosa sarebbe accaduto se non
    fosse intervenuta
    la struttura proposta da Watson e Crick; penso che alla fine si
    sarebbe resa conto - e forse non molto tempo dopo -
    della relazione tra
    le forme "A" e "B". Indipendentemente da quanto avrebbe potuto accadere,
    è chiaro che il punto di vista "anti-elicoidale" non era un semplice capriccio o
    "pura perversità". Il punto cui la Franklin era arrivata a quel tempo è uno stadio
    che molti ricercatori scientifici riconosceranno, uno stadio in cui coesistono
    osservazioni apparentemente contraddittorie o discordanti, ognuna delle quali
    può essere considerata significativa; e non si sa quali indizi scegliere per risolvere
    il rompicapo. Il libro di Watson ha chiarito il fatto che - in nessuno dei protagonisti -
    esisteva una logica ferrea che potesse portare direttamente alla soluzione.
    Per esempio, una domanda che avrebbe potuto essere posta a quel tempo
    era quale delle due forme del DNA, la "A" o la "B", fosse più strettamente vicina
    al DNA nel suo stato naturale. Deve esserci una certa ristrutturazione
    intermolecolare nella transizione da "A" a "B". Una delle due strutture era più
    fondamentale dell'altra? Con il senno di poi, la risposta è ovvia, e cioè quella
    che è più vicina al DNA in soluzione, quindi la forma idrata o forma "B", che
    non mostra ulteriori cambiamenti di struttura quando l'idratazione cresce fino
    al punto in cui il DNA passa in soluzione.
    Bisogna aggiungere che, verso la fine del 1952, Wilkins e Randall resero nota
    una somiglianza tra le fotografie di diffrazione a raggi X di spermatozoi e i filamenti
    di DNA puro; le periodicità tuttavia non erano chiaramente definite e la struttura
    non veniva attribuita a nessuna delle due forme - allora già note ma non
    ancora pubblicate. Le figure di diffrazione di spermatozoi furono classificate
    come forma "B" solo più tardi. Sembra corretto concludere che non c'era una
    evidenza sperimentale tanto determinante, dal punto di vista biologico, da
    convincere la Franklin a spostare il suo interesse analitico principale dalla
    forma "A" alla forma "B". Anche se la Franklin per un po' si mosse nella direzione
    sbagliata per quanto riguardava uno degli aspetti del problema, ci sono
    tuttavia sufficienti indicazioni che dimostrano che era nel giusto per quanto
    riguarda altri aspetti. Nel suo primo lavoro, la Franklin analizzò anche il problema
    dell'impacchettamento delle basi. Discusse l'esistenza di piccoli aggregati
    stabili di molecole, connesse da legami a idrogeno tra i loro gruppi basici e
    con i gruppi fosfatici esposti al mezzo acquoso. Trattò anche l'ovvia difficoltà
    di impacchettare una sequenza di basi che non seguono un ordine
    cristallografico particolare. Il punto raggiunto dalla sua riflessione può essere
    giudicato dal seguente estratto del suo lavoro del marzo 1953:
    D'altra parte, sembra anche improbabile che i gruppi purinici e
    pirimidinici, considerevolmente differenti l'uno dall'altro sia in forma sia
    in grandezza, possano essere intercambiabili in una struttura così ordinata
    come quella della situazione "A". Una possibile soluzione, quindi, è che nella
    struttura "A" la citosina e la timina siano intercambiabili, mentre la purina e
    la pirimidina non lo siano. Questo è suggerito dalle strutture cristalline -
    notevolmente simili - trovate da Broomhead (1951) per gli idrocloruri di
    adenina e di guanina. In questo modo potrebbe essere possibile una varietà
    infinita di sequenze nucleotidiche in grado di spiegare la specificità biologica
    del DNA
    .
    La intercambiabilità delle basi è, naturalmente, ancora molto lontana dalla
    verità finale - l'accoppiamento delle basi - ma nel contesto dell'analisi
    cristallografica nella quale la Franklin era impegnata (una analisi che poteva
    portare a una soluzione per la parte della struttura che si ripeteva regolarmente)
    questa idea sarebbe stata essenziale per riuscire ad adattare al modello anche
    le parti variabili. Nel suo libro, Watson ha scritto che la "immediata accettazione"
    da parte della Franklin del modello di Watson e Crick all'inizio lo meravigliò; ma
    continua dicendo che, dopo averci riflettuto, questo fatto non lo sorprendeva
    più. E' un fatto che non può più sorprendere, dopo aver studiato i lavori della
    Franklin e i suoi appunti di laboratorio, e dopo aver capito quanto, nello
    sviluppo del suo lavoro - per quanto in modo sconnesso e in tempi diversi -
    fosse giunta vicina alle varie caratteristiche della struttura contenute nella
    soluzione corretta.


    -------------------------------------------------------

    * Da "Nature", 24 agosto 1968, pag. 808-810. Aaron Klug (nato nel 1926) è membro del Laboratorio di biologia molecolare del Medical Research Council a Cambridge. Le sue ricerche vertono sull'analisi cristallografica delle strutture biologiche. Nel 1982 ha ricevuto il premio Nobel per la chimica.

    --------------------------------------------------------

    Lavori di R.E. Franklin e R.G. Gosling.
    1) The structure of sodium thymonucleate fibres. I. The influence of water content,
    "Acta Cryst", 6; 673 (1953).
    2) The structure of sodium thymonucleate fibres. II. The cylindrically symmetrical
    Patterson function, "Acta Cryst", 6; 678 (1953).
    3) Molecular configuration in sodium thymonucleate, "Nature", 171; 742 (1953).
    4) Evidence for 2-chain helix in crystalline structure of sodium desoxyribonucleate,
    "Nature", 172; 156 (1953).
    5) The structure of sodium thymonucleate fibres. III. The three-dimensional
    Patterson function, "Acta Cryst", 8; 151 (1955).



    Altri riferimenti bibliografici.
    6) R.G. Gosling, Tesi, Università di Londra (1954).
    7) M.H.F. Wilkins, A.R. Stokes e H.R. Wilson, "Nature", 171; 739 (1953).
    8) J.D. Watson e F.H.C. Crick, "Nature", 171; 737 (1953).
    9) G.B.B.M. Sutherland e M. Tsuboi, "Proc. Roy. Soc.", A, 223; 80 (1954).
    11) M.H.F. Wilkins, W.E. Seeds, A.R. Stokes e H.R. Wilson, "Nature", 172; 759 (1953).
    12) M.H.F. Wilkins e J.T. Randall, "Biochim. Biphys. Acta", 10; 192 (1953).


    Edited by silverback - 24/2/2009, 23:56
     
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  5. *Wolverine*
     
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    CITAZIONE (bartali @ 24/2/2009, 19:52)
    Appunto! Direi che c'è un abisso tra dire "X donne non hanno ricevuto un nobel (forse) meritato" e dire "X donne non hanno ricevuto un nobel perché donne". Le nostre truffaldine ideologiche evidentemente hanno problemi di conflitto neuronale a causa della maggiore comunicazione tra i due emisferi cerebrali che impedisce loro di rilevarne la sostanziale differenza.

    Toglierei il "forse", per il resto condivido.
     
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  6. silverback
     
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    A proposito di sciocchezzuole propagandate sul web...
    http://www.mistya.net/2006/12/la-tesla-car-2/
    CITAZIONE
    # Tesla Says:
    Maggio 25th, 2007 @ 06:59


    Ti voglio fare una domanda, tu sai chi è Mileva Maric? Se sei un’appassionato lo sai di certo.. In Serbia questa donna fece un test di intelligenza quando era giovane, Einstein arrivava a un Q.I. di 180 mentre lei a un Q.I. di 220. Nessuno vorrà approvare questa cosa, ma è così, come le formule di Tesla, che poi alla fine sono finite nelle mani degli Americani, la moglie di Einstein, Mileva Maric, era una matematica, ed é stata lei a fare la maggior parte, se non tutta, la formula che ha poi contribuito alla costruzione della bomba atomica, lui ci mise solo la sua firma, infatti se si leggono i suoi scritti cita sempre loro due, ma non é sincero perché anche dopo il loro “divorzio” lei lo aiuta… Ma come dicevo prima, sono tante le cose che nessuno di voi sa ancora..

    A parte il fatto che il Q.I. di Einstein era di poco superiore a 160, tutto il resto è una bufala stratosferica.

    CITAZIONE (silverback @ 19/2/2009, 02:17)
    Mileva ha un curriculum universitario di tutto rispetto. Nel corso di ciascuno degli anni accademici ha ottenuto voti migliori di quelli di Albert. E anche all'esame finale i voti sono discreti, tranne che in matematica. Un'insufficienza che risulta determinante. Mileva ripeterà l'esame l'anno successivo e di nuovo sarà bocciata. Dopo di che rinuncerà per sempre.

    CITAZIONE
    mentre lei a un Q.I. di 220.

    Ma, stranamente, fu bocciata per ben due volte agli esami.

    Edited by silverback - 1/3/2009, 11:23
     
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  7. Quinzio2
     
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    Per la cronaca la persona con piu' alto QI al mondo (tra quelli certificati ovviamente) e' una certa Marilyn Vos Savant, una donna. Wikipedia vi dira' il resto, se interessati.
     
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  8. silverback
     
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    CITAZIONE (Quinzio2 @ 1/3/2009, 11:20)
    Per la cronaca la persona con piu' alto QI al mondo (tra quelli certificati ovviamente) e' una certa Marilyn Vos Savant, una donna. Wikipedia vi dira' il resto, se interessati.

    Che poi, avere un Q.I. di 228 (come la Savant), significa tutto e niente.
    http://it.geocities.com/evidda/CREA.html
    CITAZIONE
    A PROPOSITO DI CREATIVITA’:

    La creatività esiste veramente e se esiste è qualcosa di latente e di inespresso in ognuno oppure una qualità di pochi privilegiati ? A. Einstein ad esempio riteneva che esistesse, non a caso dichiarò che “l’immaginazione è più importante della conoscenza”, nel senso che questa può dare apporto culturale e fornire nuova conoscenza. Come scrive C. Trombetta nel suo libro intitolato “La creatività” i primi studi su questo argomento riguardarono delle distinzioni tra i concetti di fantasia, immaginazione creatrice ed invenzione. L’interesse sull’argomento si intensificò in America nel 1957 dopo il lancio andato a buon fine dello Sputnik russo verso la Luna, evento che decretò la sconfitta americana della sfida spaziale tra le due superpotenze. Come scrive A. J. Cropley in “La creatività nella scuola e nella società” in quel frangente gli americani intuirono che l’individuo creativo era necessario per l’avanzamento del progresso scientifico e tecnologico. Fino ad allora era opinione diffusa ritenere che i migliori scienziati fossero delle persone con elevato tasso di istruzione e con elevate competenze specialistiche. Fino ad allora gli americani supponevano che persone con alto quoziente intellettivo fossero anche creative. In realtà è stato scoperto recentemente che tutte le persone creative sono anche intelligenti, ma non tutte le persone intelligenti sono anche creative[Beaudot, 1974]. Così come studiosi e premi Nobel(come Lewontin, Eccles, Rita Levi Montalcini) hanno criticato il concetto di quoziente intellettivo. Il quoziente d’intelligenza viene definito come il rapporto tra età mentale ed età cronologica, moltiplicato per 100. Ad esempio un bambino con un quoziente d’intelligenza di 150 di 4 anni dovrebbe teoricamente avere le stesse capacità mentali di un bambino normale di 6 anni. Probabilmente siamo ancora agli albori per quel che riguarda la misurazione dell’intelligenza umana. I più noti psicologi recentemente infatti hanno stabilito la validità del quoziente intellettivo come strumento diagnostico per rilevare disfunzioni cerebrali e ritardo mentale, ma non per stabilire con esattezza le differenze individuali riguardo alle capacità di apprendimento ed al potenziale intellettivo. Ci sono persone che hanno grandi capacità di apprendimento e risultati mediocri nei test d’intelligenza. Così come ci sono persone molto creative e molto intelligenti che non hanno risultati eccellenti nei test d’intelligenza. Non mi risulta a proposito che la donna più intelligente del mondo con un quoziente intellettivo di 215 abbia dato un contributo scientifico, artistico, filosofico o politico all’umanità. Il biologo Watson, che insieme a Crick, scoprì l’enigma della struttura del dna invece aveva un quoziente intellettivo appena appena superiore alla media. Fu una scoperta importantissima per l’umanità e non avvenne casualmente, ma grazie alla logica dei due scienziati. Ci sono elementi, come la distrazione e la stessa originalità di pensiero, che sono svantaggiosi nei test d’intelligenza e comportano una resa al quoziente intellettivo minore rispetto alle effettive capacità. Come in ogni test che si rispetti in psicologia inoltre ci sono i falsi positivi ed i falsi negativi. I falsi positivi sono coloro che risultano essere “in gamba” nonostante non lo siano, i falsi negativi l’esatto contrario. Come se non bastasse abbiamo un’ulteriore contraddizione: la riuscita di una batteria dei test d’intelligenza deriva dall’indice di predittività. Una batteria di test d’intelligenza viene ritenuta valida se i risultati ottenuti da dei bambini a queste prove d’abilità riescono a predire i loro successi/insuccessi scolastici. A sua volta verranno fatti ulteriori studi per verificare se quei test di intelligenza hanno predetto l’insuccesso o il fallimento professionale di quei bambini, quando sono diventati adulti. Assistiamo così ad una ipersemplificazione della realtà: sarà senz’altro vero che i risultati dei test di intelligenza sono correlati al successo/insuccesso scolastico o all’integrazione o meno nel mondo del lavoro, ma in questo modo vengono esclusi alcuni fattori non meno determinanti come le scelte di vita, la malattia o il caso. Non solo, ma ogni test d’intelligenza non è altro che il risultato di una definizione operativa degli psicologi, che lo hanno ideato. Questo significa che ad esempio se degli psicologi ritengono che l'intelligenza sia sinonimo di velocità e di pensiero convergente avremmo dei tests d’intelligenza completamente diversi(che danno dei risultati completamente diversi) rispetto ad altri psicologi, che hanno definito in modo completamente differente l’intelligenza umana. Questo non dipende solo dalla personalità e dalla mentalità degli psicologi, che elaborano il test, ma anche dalla società da cui provengono e in cui sono inseriti. Nonostante tutti questi limiti intrinseci i test d’intelligenza sono conosciuti e utilizzati in tutto il mondo, perché sono dei semplici reattivi mentali per cui basta solo carta e penna, quindi la loro somministrazione è la più economica per le aziende che devono assumere personale, rispetto a fornire a tutti i candidati un periodo di prova. Inoltre anche se hanno tutti i difetti elencati sono più attendibili dei colloqui, in cui contano anche fattori come l’antipatia/simpatia e la similarità o la non similarità tra l’esaminatore e il candidato.
    Per quel che concerne l’istruzione attualmente sappiamo come sottolinea A. O. Osborn nella sua opera “L’arte della creatività” che la maggior parte delle persone specializzate sono sterili per quel che riguarda la produzione di idee e la risoluzione di problemi, mentre altre meno istruite possono risultare più creative. A questo proposito ricorda che Morse, l’inventore del telegrafo, era un ritrattista; che Faraday era privo di istruzione formale; che Fulton, l’inventore della nave a vapore, era un artista; che Davenport, l’inventore dell’elettromagnete, era un fabbro.
    Nonostante “l’effetto Sputnik” lo psicologo J. P. Guilford a metà degli anni’70 prese in esame l’indice di tutti i Psychological Abstracts. Ebbene su 121000 titoli di saggi psicologici soltanto 186 riguardavano la creatività: solo lo 0,1%. Nonostante i facili entusiasmi nei confronti della creatività(si pensi ad esempio al Maggio francese e ad uno dei suo slogan: l’immaginazione al potere) e le cadute di interesse nei confronti dell’argomento i pochi ricercatori che vi si sono dedicati hanno dato contributi fondamentali a riguardo. Tuttavia nessuno studioso potrà mai dare una definizione esaustiva della creatività. Forse la genialità è quella cosa che nessuno potrà mai spiegare. Per quanto concerne la creatività artistica bisogna ricordare Freud, che con i suoi studi “il poeta e la fantasia” e “Saggio su Leonardo” iniziò ad esaminare il rapporto tra inconscio ed arte. Ma l’inconscio del resto sembra avere un ruolo determinante anche nell’ambito della creatività scientifica. E quale è il regno dell’inconscio se non il sogno? Infatti F. A. von Kerule scoprì la struttura dell’anello benzenico in sogno. Kerule scrive: “Voltai la sedia verso il caminetto e mi assopii. Ed ancora gli atomi saltellavano davanti ai miei occhi. Questa volta i gruppi più piccoli stavano con discrezione sullo sfondo. Il mio occhio mentale, reso più acuto da ripetute visioni di questo tipo, riusciva ora a distinguere strutture più ampie, di varia conformazione; lunghe file, a volte più vicine l’una all’altra; tutte che si combinavano e si contorcevano con movimenti di serpente. Ma ecco ! E quello che cos’è ? Uno dei serpenti aveva afferrato la propria coda , e la forma piroettava beffarda davanti ai miei occhi. Come per un improvviso lampo di luce mi svegliai….Dobbiamo imparare dai sogni, cari signori”.
    Per G. Wallas esistono 4 fasi della soluzione dei problemi scientifici: preparazione, incubazione, illuminazione, verifica. La preparazione consiste nella conoscenza e nell’analisi del problema. L’incubazione invece è strettamente connessa all’inconscio. Ma vediamo in cosa consistono queste 4 fasi riportando dei brani della testimonianza del matematico Poincarè, riguardo alla scoperta della teoria dei gruppi fuchsiani e delle funzioni fuchsiane.


    PREPARAZIONE: “Volli in seguito rappresentare queste funzioni con il quoziente di due serie; questa idea fu particolarmente cosciente e pensata; l’analogia con le funzioni ellittiche mi guidava. Mi domandai quali dovessero essere le proprietà di queste serie, se esistevano, e arrivai senza difficoltà a formare la serie che ho chiamato thetafuchsiane.”


    INCUBAZIONE: “A questo punto partii da Caen, dove abitavo, per partecipare ad una gita geologica organizzata dall’Ecole des Mines. Le peripezie del viaggio mi fecero dimenticare i miei lavori matematici…” e sempre in vacanza “ una sera contrariamente alle mie abitudini, bevvi del caffè, e non riuscii più ad addormentarmi: le idee mi si accavallavano nella mente, le sentivo come urtarsi fino a che due di loro, per così dire, si agganciarono, per formare una combinazione stabile”. L’incubazione è quindi un periodo infruttuoso(ad esempio una vacanza o un momento di pausa), in cui l’inconscio può rielaborare e riformulare alcuni aspetti del problema, che fino ad allora analizzato dal punto di vista cosciente non sembrava avere alcuna soluzione. L’incubazione risulta quindi essere un intervallo di tempo, in cui il lavorio inconscio riesce a sbloccare la situazione mentale di stallo precedente. ILLUMINAZIONE: Sempre Poincarè scrive: “…arrivati a Coutances, montammo su un trenino per non so quale passeggiata; nel momento in cui mettevo piede sul predellino, mi venne l’idea, senza che niente nei miei precedenti pensieri sembrasse avermici preparato, che le trasformazioni che avevo usato per definire le funzioni di Fuchs fossero identiche a quelle della geometria non euclidea.”


    VERIFICA: è il momento in cui viene controllata tramite la logica e la sintattica della disciplina l’intuizione precedente.

    E’ ora il caso di definire in cosa consiste la ricerca scientifica. Lo scienziato P. B. Medawar ne “I limiti della scienza” scrive che “l’arte della ricerca scientifica è l’arte del risolvibile”. Il matematico J. Hadamard, nel suo libro “La psicologia dell’invenzione in campo matematico” fa una distinzione basilare tra scoperta ed invenzione: “la scoperta riguarda un fenomeno, una legge, un ente già esistenti, ma che non erano stati percepiti. Colombo ha scoperto l’America, che esisteva prima di lui; al contrario, Franklin ha inventato il parafulmine: prima di lui non c’era alcun parafulmine”. La maggior parte della ricerca scientifica quindi si può desumere, quando approda a dei risultati, giunge a delle scoperte, più raramente a delle invenzioni. Altri contributi fondamentali per quel che riguarda lo studio della creatività sono il pensiero produttivo della scuola Gestalt ed il pensiero divergente di Guilford. Il pensiero produttivo di Werthmeir “consiste nel rendersi conto delle caratteristiche strutturali della situazione-problema e delle esigenze di miglioramento che vi sono implicite[Rubini, “La creatività]. Il soggetto giunge quindi alla soluzione del problema, dopo averlo ristrutturato cognitivamente(insight), dopo averlo riorganizzato, ridotto ai termini essenziali e di conseguenza anche semplificato. Per Guilford invece esistono sostanzialmente due stili di pensiero: il pensiero convergente ed il pensiero divergente. Per risolvere problemi che hanno un’unica soluzione è necessario il pensiero convergente, che non richiede nessun tipo di originalità e di apertura mentale. Il pensiero divergente invece partendo da una traccia iniziale conduce ad una molteplicità di idee originali e diverse tra di loro. Non esiste una soluzione giusta e nei tests di pensiero divergente è premiato chi ha più idee indipendenti ed originali.

     
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  9. Quinzio2
     
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    D'accordo, Silver.
    Avere un QI non significa riuscire a comporre delle sinfonie come faceva Mozart.
    Neanche il nostro attuale premier sembra avere un QI alto eppure e' a capo di una nazione intera.

    Pero' se tu dovessi costruire il ponte sullo stretto di Messina o dovessi capire come migliorare la sicurezza degli aeroplani, o dovessi progettare il treno ad alta velocita' chi chiameresti, Mozart, Berlusconi, o la Savant ?

     
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  10. silverback
     
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    CITAZIONE (Quinzio2 @ 1/3/2009, 11:43)
    Pero' se tu dovessi costruire il ponte sullo stretto di Messina o dovessi capire come migliorare la sicurezza degli aeroplani, o dovessi progettare il treno ad alta velocita' chi chiameresti, Mozart, Berlusconi, o la Savant ?

    Sì, Quinzio, ma credo che ci siamo capiti.
     
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  11. ventiluglio
     
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    CITAZIONE (Quinzio2 @ 1/3/2009, 11:43)
    D'accordo, Silver.
    Avere un QI non significa riuscire a comporre delle sinfonie come faceva Mozart.
    Neanche il nostro attuale premier sembra avere un QI alto eppure e' a capo di una nazione intera.

    Pero' se tu dovessi costruire il ponte sullo stretto di Messina o dovessi capire come migliorare la sicurezza degli aeroplani, o dovessi progettare il treno ad alta velocita' chi chiameresti, Mozart, Berlusconi, o la Savant ?

    E' noto, come ha ben spiegato Silver (a proposito, grazie per l'ennesimo - sempre puntuale e preciso - riferimento bibliografico), che il QI è un parametro pochissimo significativo dell'"intelligenza" umana (che pure - di per sé - è un termine controverso), anche (e non solo) perché i test che portano a definirlo non potranno mai essere del tutto scevri da condizionamenti e contenuti di ordine "culturale" e nozionistico, ambiti che nulla hanno a che fare con l'intelligenza propriamente detta.

    Siccome però mi occupo professionalmente di costruzioni e di progettazione mi viene da dire che la progettazione di qualsiasi cosa (anche la più tecnicamente complessa, dalla navicella spaziale, alla vettura di formula 1, al tunnel sottomarino) richiede una certa dose (più o meno consistente a seconda della qualità del progettista) di creatività, e non "secchionaggione o nozionismo acritico" (qualità queste che, semplificando un po', sono quelle effettivamente misurate dai presunti QI).

    Quindi, date ovviamente le necessarie competenze specifiche (che non si improvvisano, e si apprendono invece con lungo e faticoso apprendistato), vedrei decisamente meglio una personalità creativa come Mozart a progettare quello che dici, piuttosto che una Savant (cosa ha mai combinato costei nella vita, infatti?).

    Oggi per effettuare i calcoli matematici più complessi (ben al di là della capacità di calcolo umana) esistono i computer.
    Ma nessun computer, come è noto, ha mai progettato alcunché.

    La progettazione (esattamente come la scoperta scientifica) è infatti - quasi per definizione - l'ambito delle menti creative (e dunque intelligenti), non di detentori di presunti primati di presunti QI.

    Edited by ventiluglio - 1/3/2009, 13:58
     
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  12. Quinzio2
     
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    CITAZIONE (ventiluglio @ 1/3/2009, 13:10)
    i test che portano a definirlo non potranno mai essere del tutto scevri da condizionamenti e contenuti di ordine "culturale" e nozionistico, ambiti che nulla hanno a che fare con l'intelligenza propriamente detta.

    Ma direi che questo e' un argomento a favore dei test che misurano l'intelligenza non a sfavore. Non so perche' lo citi. Difatti i test di intelligenza sono per lo piu' quiz logico-matematici dove viene chiesto di individuare possibili correlazioni tra varie figure.
    Non so cosa ci puo' essere di piu' libero di questo da condizionamenti culturali.

    Oggi la matematica e' la stessa sia che venga insegnata in una universita' italiana, che americana, o giapponese, o cinese.
    La matematica e' stata copiata e trasmessa da paese a paese proprio perche' e' un linguaggio universale che non risente di alcun condizionamento culturale.
    Chiaramente non ci potra' mai essere nulla che abbia una percentuale di condizionamento culturale pari a zero, ma di sicuro i test logico matematici sono quelli che ci si avvicinanao di piu'.

    CITAZIONE
    mi viene da dire che la progettazione di qualsiasi cosa (anche la più tecnicamente complessa, dalla navicella spaziale, alla vettura di formula 1, al tunnel sottomarino) richiede una certa dose (più o meno consistente a seconda della qualità del progettista) di creatività, e non "secchionaggione o nozionismo acritico" (qualità queste che, semplificando un po', sono quelle effettivamente misurate dai presunti QI).

    Se prendiamo ad esempio un telefono cellulare e ci si chiede quale sia il suo compito la risposta e' terribilmente semplice: fare in modo che io possa parlare con altri possessori di telefoni quando e dove voglio. La richiesta e' finita qui, l'enunciato del problema termina qui e' di una semplicita' disarmante.
    IL problema e' come fare in modo che due persone si possano parlare a 100km di distanza. La soluzione di questo problema e' una bega squisitamente di tipo elettronico e di radiofrequenza, di campi elettromagnetici, di tecnica e tecnologia.
    Qui la creativita' non c'entra nulla, sono tutti problemi logico-matematici da risolvere.
    Poi ti potranno vendere un telefonino di colore rosso invece che verde, ma queste sono abbellimenti finali.

    Trovare il vaccino del vaiolo non richiede creativita' ma una dose enorme di pazienza, ricerca, e soprattutto un'atteggiamento scientifico.
    E cosi' via.
    Il mondo di oggi e' vivibile non perche' qualche stilista o qualche cantante crea le sue opere, ma perche' migliaia di persone hanno scoperto e trovato invenzioni seguendo criteri di ricerca logici e scientifici.


    CITAZIONE
    Vedrei decisamente meglio una personalità creativa come Mozart a progettare quello che dici, piuttosto che una Savant (cosa ha mai combinato costei nella vita, infatti?).

    Beh, guarda, probabilmente lo dici per provocare, non saprei.
    Io a progettare un ponte o un ripetitore per radiofrequenza scelgo un ingegnere, che di solito e' una persona con doti di tipo logico.
    Non sceglierei un artista, come Mozart o Frank Sinatra.

    CITAZIONE
    La progettazione (esattamente come la scoperta scientifica) è infatti - quasi per definizione - l'ambito delle menti creative (e dunque intelligenti), non di detentori di presunti primati di presunti QI.

    Il QI non e' ne astratto ne presunto. E' la misura della capacita' di risolvere problemi di tipo logico. Purtroppo esiste, come esiste ad esempio il tempo che uno impega per correre 100 metri.
    E spesso i colloqui di selezione delle aziende, quelle serie, prevedono una batteria di test che sono gli stessi che misurano l'IQ.
    L'esame di ammissione all'accademia ufficiali dell'esercito e dell'areonautica prevede una batteria di test uguali a quelli che misurano l'IQ.

    CITAZIONE
    secchionaggione o nozionismo acritico" (qualità queste che, semplificando un po', sono quelle effettivamente misurate dai presunti QI).

    Ma hai mai visto un test che misura l'IQ ?
     
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    Lichtenstein .. o San Marino, che anche loro hanno il rappresentante all'ONU

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    CITAZIONE (Quinzio2 @ 1/3/2009, 20:26)
    secchionaggione o nozionismo acritico" (qualità queste che, semplificando un po', sono quelle effettivamente misurate dai presunti QI).

    Ma hai mai visto un test che misura l'IQ ?
    [/QUOTE]

    Beh però si può diventare esperti in test che misurano il QI, ad esempio, a livello teorico e poi non avere la capacità, l'immaginazione o l'intelligenza giusta per applicare le stesse nozioni logico-matematiche a livello pratiche.

    Roberto Vacca, ad esempio (ingegnere sistemistico) racconta che la prima volta che fece un test d'intelligenza totalizzò 60. Capiti i meccanismi lo ha rifatto (tutto diverso come domande e prove) totalizzando oltre 100.

     
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  14. Quinzio2
     
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    CITAZIONE (Ritavi @ 1/3/2009, 20:42)
    CITAZIONE (Quinzio2 @ 1/3/2009, 20:26)
    CITAZIONE
    secchionaggione o nozionismo acritico" (qualità queste che, semplificando un po', sono quelle effettivamente misurate dai presunti QI).

    Ma hai mai visto un test che misura l'IQ ?

    Beh però si può diventare esperti in test che misurano il QI, ad esempio, a livello teorico e poi non avere la capacità, l'immaginazione o l'intelligenza giusta per applicare le stesse nozioni logico-matematiche a livello pratiche.

    Roberto Vacca, ad esempio (ingegnere sistemistico) racconta che la prima volta che fece un test d'intelligenza totalizzò 60. Capiti i meccanismi lo ha rifatto (tutto diverso come domande e prove) totalizzando oltre 100.

    Scusa sai, ma faccio la domanda anche a te: hai mai fatto o visto un test d'intelligenza ?
    Non e' roba da marziani, lo puoi fare anche tu, se non sei ritardata (cosa che non credo) probabilmente sei nella media o anche sopra.

    CITAZIONE
    Beh però si può diventare esperti in test che misurano il QI, ad esempio, a livello teorico e poi non avere la capacità, l'immaginazione o l'intelligenza giusta per applicare le stesse nozioni logico-matematiche a livello pratiche.

    No, mi dispiace, non si puo' diventare esperti nel fare questi test.
    Studi effettuati dimostrano che il QI di una persona rimane piu' o meno uguale nel corso della sua vita.
    Non si diventa esperti cosi' come non si diventa come Mozart a furia di suonare il pianoforte. Mozart ha composto centinaia di sinfonie a partire da bambino. A una persona normale puoi fargli suonare il piano 10 ore al giorno e non comporra' mai nulla.

    Se hai un IQ alto sei capace di imparare a progettare un circuito elettronico, a programmare un microprocessore o a fare i calcoli per mandare in orbita una navetta spaziale. Fidati che e' cosi'.


    CITAZIONE
    Roberto Vacca, ad esempio (ingegnere sistemistico) racconta che la prima volta che fece un test d'intelligenza totalizzò 60. Capiti i meccanismi lo ha rifatto (tutto diverso come domande e prove) totalizzando oltre 100.

    R. Vacca scrive libri di filosofia spicciola, gli piace raccontare aneddoti e divertire la gente con le sue storie. Temo che questa sia una delle sue spaccate.
    60 e' un punteggio da idiota, da ritardato mentale, e Vacca e' un ingegnere laureato per cui e' impossibile. Gli piace divertire la gente.
     
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    CITAZIONE (Quinzio2 @ 1/3/2009, 21:18)
    Scusa sai, ma faccio la domanda anche a te: hai mai fatto o visto un test d'intelligenza ?
    Non e' roba da marziani, lo puoi fare anche tu, se non sei ritardata (cosa che non credo) probabilmente sei nella media o anche sopra.

    sì l'ho fatto alla fine della terza media, per il programma d'orientamento scolastico e avevo ottenuto 113.

    Poi l'ho rifatto dopo qualche anno ottenendo un 117. E sinceramente, anch'io avevo avuto l'impressione di maggiore facilità proprio perchè il meccanismo era già stato sviscerato la volta precedente (... e l'ho fatto solo un paio di volte, la seconda volta, tra l'altro, per gioco, quindi senza particolare impegno derivante da aspettative future)

    CITAZIONE
    Beh però si può diventare esperti in test che misurano il QI, ad esempio, a livello teorico e poi non avere la capacità, l'immaginazione o l'intelligenza giusta per applicare le stesse nozioni logico-matematiche a livello pratiche.

    No, mi dispiace, non si puo' diventare esperti nel fare questi test.
    Studi effettuati dimostrano che il QI di una persona rimane piu' o meno uguale nel corso della sua vita.
    Non si diventa esperti cosi' come non si diventa come Mozart a furia di suonare il pianoforte. Mozart ha composto centinaia di sinfonie a partire da bambino. A una persona normale puoi fargli suonare il piano 10 ore al giorno e non comporra' mai nulla.

    Se hai un IQ alto sei capace di imparare a progettare un circuito elettronico, a programmare un microprocessore o a fare i calcoli per mandare in orbita una navetta spaziale. Fidati che e' cosi'.


    [
    CITAZIONE
    QUOTE]
    Roberto Vacca, ad esempio (ingegnere sistemistico) racconta che la prima volta che fece un test d'intelligenza totalizzò 60. Capiti i meccanismi lo ha rifatto (tutto diverso come domande e prove) totalizzando oltre 100.

    R. Vacca scrive libri di filosofia spicciola, gli piace raccontare aneddoti e divertire la gente con le sue storie. Temo che questa sia una delle sue spaccate.
    60 e' un punteggio da idiota, da ritardato mentale, e Vacca e' un ingegnere laureato per cui e' impossibile. Gli piace divertire la gente.[/QUOTE]

    Pare che i test d'intelligenza presentino il limite della relatività culturale che ne inficia l'attendibilità. Forniscono cioè una misura del rendimento intellettivo più che dell'intelligenza vera e propria, rendimento che è notevolmente influenzato dalla cultura di appartenenza nonchè dalla generazione di appartenenza.V
    Non so se Roberto Vacca se lo sia inventato o meno, ovviamente, certo è che probabilmente, quando l'ha fatto la prima volta non era così diffuso, mentre oggi sempre più gente ha familiarità con i quiz e i problemini logico-matematici proposti nei test.

    http://www.ilcrocevia.net/societa39.html

    Sono certo meglio dei test di intelligenza sviluppati quasi un secolo fa da Binet in Francia e da Terman in USA. Questi mirano a misurare il quoziente di intelligenza [QI], proponendo problemini su numeri (quale: numero mancante va inserito in una serie), parole, configurazioni grafiche. Dovrebbero essere tarati in modo che metà della popolazione stia sotto 100 e metà sopra [da qui la battuta: "Ti rendi conto che metà della popolazione ha un'intelligenza inferiore alla media?"]. In effetti il QI non misura l'intelligenza che è una caratteristica complessa fatta anche di memoria, di abilità logiche e deduttive, di pensiero laterale o astratto, di inventività e spregiudicatezza, etc. Misura solo l'abilità a risolvere quel tipo di problemi. Aver definito il QI in quel modo è stata una sciagura della psicologia. Ha generato malintesi gravi. C'è un'associazione internazionale (MENSA) che accoglie persone con QI superiore a un certo livello (circa 180 - dovrebbe superarlo il 2% della popolazione). Ho conosciuto alcune persone intelligenti che erano state accettate e diedero le dimissioni dopo breve tempo. Non sopportavano di perdere tempo a risolvere quesiti sul peso di ipotetici mattoni o su sequenze insensate di numeri interi.
    Propugnava con passione i test difficili anche William Shockley, premio Nobel per la fisica (era co-inventore del transistor). Per produrre transistor al silicio fondò un'azienda che ebbe vita misera e breve. Shockley propose anche di fare banche di spermatozoi di Premi Nobel per inseminare donne che partorissero geni. Dimostrò così che credeva all'ereditarietà dell'intelligenza e che anche dopo aver vinto un Premio Nobel, si possono fare proposte insensate e incivili..


    Si sa che ci vuole un'intelligenza speciale per produrre programmi di computer grandi e complessi. Questo software non è più prodotto da singole persone, ma da squadre. Formare, dirigere, monitorare una squadra è un lavoro diverso che oltre alle conoscenze informatiche, richiede abilità organizzative, sensibilità, immaginazione. I test che mirano a scegliere supervisori capaci di guidare squadre di softwaristi, quindi, devono misurare inventività, "larghezza di banda", capacità di risolvere problemi, di pensare fuori da schemi tradizionali e di essere leader, invece che seguaci.


    Intanto molti parlano dei particolari quiz avanzati e complessi utilizzati. Dozzine di essi sono spiegati nel libro di Poundstone citato. Quindi è sempre più probabile che i candidati li abbiano già sentiti e di certo se ne staranno inventando di nuovi. Ne spiego qui uno e di altri riporto solo l'enunciato lasciando la soluzione al lettore diligente. Li possono meditare i giovani che cercano lavori innovativi.
     
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