Il rancore femminile
  • Poll choices
    Statistics
    Votes
  • 1) Sì, le donne rinfacceranno sempre agli uomini "il passato che non passa" e continueranno a ricordarsi solo di quello che gli fa comodo, anche quando saranno diventate "il primo sesso"
    80.43%
    37
  • 3) Non so/non risponde
    13.04%
    6
  • 2) No, in futuro il loro rancore svanirà. Il tempo è un gran dottore
    6.52%
    3
Guests cannot vote (Voters: 46)

Il rancore femminile

è indelebile?

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. silverback
     
    .

    User deleted


    Di norma, la non assegnazione di un Premio Nobel, non dipende affatto dal possedere due cromosomi X anziché un X e un Y...
    Per esempio, lo scorso anno il premio Nobel per la fisica è stato vinto dai giapponesi Yoichiro Nambu, Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa, i quali si sono basati sui lavori pubblicati nel 1963 dal fisico italiano Nicola Cabibbo,
    http://www.fondazioneitaliani.it/index.php...-a-Cabibbo.html
    SPOILER (click to view)

    Premio Nobel per la Fisica 2008. Riconoscimento negato a Cabibbo
    martedì 07 ottobre 2008
    Delusione italiana per l'assegnazione del Nobel per la Fisica. Il Comitato non ha ricosciuto al fisico italiano Nicola Cabibbo la paternità dello studio premiato.

    di Andrea Camboni

    Premio Nobel 2008. Tutti i pezzi

    andromeda.jpg Dopo il Nobel per la Medicina assegnato a Luc Montaigner, Francoise Barré Sinoussi e ad Harold zur Hausen, l’Accademia Reale Svedese delle Scienze ha conferito il Nobel della Fisica ai giapponesi Yoichiro Nambu, Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa per le loro ricerche sulla fisica delle particelle. Metà del premio è andata a Nambu che lavora nell'istituto dell'università di Chicago dedicato a Enrico Fermi mentre l’altra metà se la sono divisa equamente Kobayashi, dell'organizzazione giapponese Kek (High energy accelerator research organization), e Maskawa, che lavora nell'istituto di Fisica teorica dell'università di Kyoto.
    Gli studi dei tre ricercatori costituiscono l’ossatura della teoria di riferimento della fisica delle particelle, avendo gettato le basi del Modello Standard, ovvero l’“enciclopedia” di tutte le particelle elementari ad oggi note, inclusa la descrizione di tre delle quattro forze fondamentali (le interazioni forti, quelle elettromagnetiche e le deboli) che regolano le interazioni di queste particelle.
    Solamente il bosone di Higgs - la cosiddetta “particella di Dio”, che spiega l'esistenza della massa - mancherebbe all’appello. È a questa ricerca che è diretto l’esperimento del Cern di Ginevra.
    Ill lavoro di Nambu, Kobayashi e Maskawa ha svelato l'asimmetria del nostro pianeta individuando contestualmente le deviazioni dalla simmetria a livello microscopico.
    Questo equilibrio asimmetrico, generatosi da una rottura spontanea della simmetria, venne descritto matematicamente, per la prima volta da Nambu, all’inizio degli anni ’60. Kobayashi e Maskawa, i cui esperimenti sono iniziati nel 1964, hanno invece descritto i fenomeni di rottura della simmetria che agirono quando l’universo era ancora in fasce.
    Più semplicemente: l’universo, creato dall’esplosione del Big Bang, presentava pari quantità di materia e antimateria che, in teoria, avrebbero dovuto annullarsi a vicenda mortificando qualsivoglia scintilla di vita. E invece è successo qualcosa. La rottura di una simmetria, appunto, di un equilibrio tra essere e non essere che nel migliore dei mondi possibili, forse, sarebbe rimasto necessariamente inalterato. Un mistero che solamente il bosone di Higgs potrebbe svelare. Al super acceleratore Lhc l’ultima parola.

    GLI ESPERIMENTI DEL CERN- Grazie alla costruzione del Large Hadron Collider saranno, infatti, condotti quattro esperimenti che potranno finalmente chiarire all’uomo di che pasta è fatto.
    L’esperimento Compact Muon Solenoid (Cms), andrà alla ricerca del bosone di Higgs, cercando, inoltre, di spiegare perché la materia ha avuto la meglio sull'antimateria e indagando sulla materia oscura – che occupa il 25% dell’universo.
    Il secondo esperimento, A Toroidal Lhc Apparatus (Atlas) cercherà di verificare se in realtà le forze della natura si limitano a essere una sola, se esistono superparticelle (o particelle ombra di quelle previste dalla fisica attuale) e se esistono anche nuovi mattoni della materia e nuove forze.
    Alice - A Large Ion Collider Experiment - è un apparato alto 16 metri e lungo 20 che studia collisioni fra nuclei di piombo – accelerati nell’Lhc - anziché fra protoni – di cui l’Lhc intende studiare il decadimento. Alice cercherà di ricreare lo stato della materia creatosi subito dopo il Big Bang, quel “brodo” di quark e gluoni esistito per pochi miliardesimi di secondo dopo l’esplosione.
    Ora, grazie alla teoria di Kobayashi e Maskawa, formulata nel 1972, il Modello Standard si è esteso a tre famiglie di quark, sei diverse varietà di “sapori” che si combinano tra loro dando vita a mesoni, protoni e neutroni, e che legandosi ai gluoni formano gli adroni, attraverso un processo di decadimento dalla particella più pesante e instabile a una più leggera: Large Hadron Collider beauty (LHCb), grazie ai suoi 435 metri quadrati di rivelatori, cercherà di capire che cosa è successo fra materia e antimateria subito dopo il Big Bang.

    DELUSIONE ITALIA- C’è un po’ di Italia nel Nobel per la Fisica, nella metà del Premio attribuito a Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa, per essere precisi. Un po’ di Italia c’è, ma come la non pervenuta “particella di Dio” nessuno l’ha vista. I loro esperimenti, condotti a partire dal 1964 si sono basati, infatti, sui lavori pubblicati nel 1963 dal fisico italiano Nicola Cabibbo.
    In realtà, il contributo premiato dall’Accademia Reale Svedese delle Scienze si chiama Ckm ovvero “Matrice Cabibbo-Kobayachi-Maskawa”. Allora, diciamo pure che questa “particella” italiana nella ricerca, pur non essendo così piccola, sia stata deliberatamente ignorata nonostante la comunità scientifica internazionale attribuisca a Cabibbo la paternità delle idee poi sviluppate dai due fisici giapponesi.
    Nemmeno una menzione da parte del Comitato che assegna i premi.
    “Sono lieto – ha dichiarato il presidente dell'Istituto nazionale di Fisica Nucleare (Infn), Roberto Petronzio - che il premio Nobel sia stato attribuito a questo settore della fisica che sta avendo sempre più attenzione da tutto il mondo e dal quale ci aspettiamo fondamentali scoperte che aumenteranno la nostra comprensione sull'universo. Tuttavia – ha sottolineato - non posso nascondere che questa particolare attribuzione mi riempie di amarezza”.
    Per Roberto Petronzio, infatti, Kobayashi e Maskawa “hanno come unico merito la generalizzazione, peraltro semplice, di un'idea centrale la cui paternità è da attribuire al fisico italiano Nicola Cabibbo che, in modo autonomo e pionieristico, ha compreso il meccanismo del fenomeno del mescolamento dei quark (di cui Kobayashi e Maskawa hanno introdotto tre nuove famiglie, n.d.r.) , poi facilmente generalizzato dai due fisici premiati”.
    Praticamente, il plagio di una partitura dell’universo.

    Andrea Camboni
    Ultimo aggiornamento ( giovedì 09 ottobre 2008 )


    al quale, però, l'Accademia delle Scienze di Stoccolma non ha conferito alcun premio Nobel, benché il sopracitato Gabibbo lo meritasse.
    Questo, in passato, è capitato anche ad altri scienziati di sesso maschile (italiani e non).
    Alcuni esempi:
    http://sciencedesk.wordpress.com/2008/10/2...isica-italiana/

    CITAZIONE

    I Nobel mancati della fisica italiana

    La Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma non ha conferito il Premio Nobel per la Fisica 2008 all’italiano Nicola Cabibbo, sebbene abbia: riconosciuto il valore delle ricerche - la rottura spontanea di simmetria e il mescolamento dei quark - cui il fisico teorico romano ha partecipato; premiato i giapponesi Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa che hanno generalizzato i risultati di Cabibbo; riconosciuto il ruolo decisivo del fisico italiano nello sviluppo di queste ricerche (nello scientific background con cui gli scienziati dell’Accademia svedese hanno «giustificato» il premio il nome di Cabibbo ricorre otto volte, proprio come quello di Kobayashi).

    Qualcosa di analogo si è verificato con un altro fisico teorico italiano, Giovanni Jonia-Lasinio, che ha partecipato con un ruolo decisivo alle ricerche teoriche che hanno meritato il premio a Yoichiro Nambu.
    Può succedere. La Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma è un’istituzione seria e prestigiosa, ma - come tutte le cose umane - fallibile. Può incorrere in errori e omissioni. Anche clamorose: Albert Einstein non è mai stato premiato per la teoria della relatività, considerata una delle più grandi conquiste nella storia della scienza e tuttora parte fondante della fisica.

    Ma è anche vero che a Stoccolma c’è come una sorta di specifica sottovalutazione del contributo dato dagli italiani allo sviluppo della fisica. In fondo - dopo Guglielmo Marconi nel 1909 ed Enrico Fermi nel 1938 - nessun italiano ha mai vinto il premio Nobel della fisica per ricerche realizzate in Italia. Emilio Segrè (Nobel 1959) e Riccardo Giacconi (Nobel 2002) sono stati premiati per ricerche svolte negli Stati Uniti e sono, giustamente, considerati Nobel americani. Carlo Rubbia ha vinto il premio Nobel nel 1984 per ricerche realizzate al Cern di Ginevra alla guida di un team internazionale: un premio Nobel «europeo» e non specificatamente italiano.

    Eppure la fisica italiana, soprattutto nel campo delle alte energie, sia a livello teorico che sperimentale, ha dato contributi decisivi. E in almeno quattro occasioni clamorose - prima di quest’anno - non ha ottenuto un meritato premio Nobel.

    La prima di queste occasioni clamorose risale addirittura al 1946, quando Oreste Piccioni, Marcello Conversi ed Ettore Pancini - tre giovani sopravvissuti al disastro della fisica italiana determinato dal fascismo - studiando i raggi cosmici scoprono una nuova particella, il muone, in un esperimento che costituisce l’inaugurazione stessa della fisica delle alte energie (il giudizio è del premio Nobel americano Luis Alvarez).
    La seconda risale ad alcuni mesi dopo, quando un altro italiano - Giuseppe (Beppo) Occhialini, della scuola di Bruno Rossi, che nel 1932 insieme all’inglese Patrick Blackett ha messo a punto preziose tecniche di rilevamento dei raggi cosmici - lavorando a Bristol con Cecil Powell scopre un’altra particella, il pione, prevista dal giapponese Hidechi Yukawa. L’Accademia delle Science di Stoccolma riconosce subito tutta l’importanza di questo filone di ricerca basato sullo studio dei raggi cosmici, conferendo il Nobel per la fisica: nel 1948 a Patrick Blackett per i suoi studi, con la camera di Wilson, della fisica nucleare e dei raggi cosmici; nel 1949 a Hideki Yukawa per la sua teoria dei mesoni; nel 1950 a Cecil Powell, per la scoperta del pione. Ma non trova il modo di premiare né il trio Picconi, Conversi Pancini né Beppo Occhialini (e neppure Bruno Rossi, che della fisica dei raggi cosmici è addirittura il co-fondatore), per i risultati analoghi se non superiori ottenuti.


    Un terzo caso clamoroso è del 1955 e riguarda la scoperta dell’antiprotone. In un esperimento - chiamato Faustina - condotto ancora coi raggi cosmici da un gruppo guidato da Edoardo Amaldi viene rilevato un «evento strano» che sembra coinvolgere una particella prevista dalla teoria ma mai osservata: l’antiprotone. Il gruppo romano si attiva e prende contatti col team di Emilio Segré a Berkeley, in California, dove si sta costruendo un costoso acceleratore proprio con l’obiettivo di rilevare l’antiprotone. Amaldi propone una strategia nuova e aggiuntiva rispetto a quella degli americani di Segré, che viene accettata. L’esperimento italiano prende il nome di Letizia e viene realizzato insieme a quello americano, anche se fornisce i risultati un po’ dopo quello americano. Entrambi - Letizia e l’esperimento di Segré - confermano che l’antiprotone esiste e che Faustina l’aveva probabilmente incontrato per prima. Gli americani, tuttavia, rifiutano di firmare un articolo congiunto con gli italiani e nel 1958 la Reale Accademia delle Scienze premia solo loro, dimenticandosi di Amaldi.

    La quarta occasione risale all’inizio degli anni ‘70. Quando un fisico teorico austriaco ormai italianizzato - Bruno Touschek - propone l’idea di costruire un nuovo tipo di acceleratore di particelle, l’anello ad accumulazione, in cui particelle e antiparticelle vengono fatte correre lungo un anello in direzione opposte e poi fatte scontrare. Nello scontro le particelle si annichilano e producono energia da cui nascono, sulla base delle leggi quantistiche, nuove particelle. Il prototipo della macchina di nuova concezione, AdA, viene realizzato a Frascati, da un gruppo di giovani dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, tra cui un personaggio ben noto ai lettori dell’Unità, Carlo Bernardini. La macchina inaugura la «via italiana» alla fisica sperimentale delle alte energie.

    Più tardi gli italiani costruiranno Adone, una macchina cui sfugge per poco il rilevamento della particella J/?. Nel 1974, a Stanford costruiscono Spear: un anello di accumulazione del tutto simile ad Adone, solo un po’ più potente. L’acceleratore, sotto la guida di Burton Richter, trova la particella J/?. Nei medesimi giorni a Brookhaven il gruppo di Samuel Ting realizza, con un altro tipo di acceleratore, la medesima scoperta. Ai due, Richter e Ting, verrà conferito nel 1976 il Premio Nobel. Ma ancora una volta nessun riconoscimento viene dato agli italiani. Bruno Touschek resta amareggiato. Gli italiani e, lui per primo, hanno aperto una nuova strada nella fisica delle alte energie e altri a Stoccolma ne traggono i benefici. Trova ingiusto, in particolare, che Richter sia stato premiato per aver «amministrato l’idea (dell’anello di accumulazione) senza averla mai avuta».

    È avvenuto, dunque, di frequente in passato. È avvenuto di nuovo quest’anno. La fisica italiana a Stoccolma viene piuttosto sottovalutata. Questo, ormai, è un fatto. Resta da spiegare perché.

    Di Pietro Greco

    Un altro studioso al quale non fu conferito il Premio Nobel, è Oswald Theodore Avery.
    http://it.wikipedia.org/wiki/Oswald_Theodore_Avery

    CITAZIONE
    Repubblica 28.12.04
    TUTTA LA VITA IN UN'ELICA
    Viaggio nella storia e nei segreti del DNA Un saggio di James Watson, che con Francis Crick, scoprì la struttura del codice genetico
    Fin dalle origini della sua storia cosciente, l'uomo aveva cercato la chiave di quel mistero
    Sui due scienziati ebbe influenza Schrödinger, padre della meccanica quantistica
    Compreso l'alfabeto, si è poi passati a leggere l'intero libro. Vale a dire, il genoma
    di PIERGIORGIO ODIFREDDI*

    *docente dell'Università di Torino,
    membro del Comitato di Presidenza
    dell'Unione degli atei italiani (UAAR)


    Il 28 febbraio 1953, benché fosse sabato, il ventitreenne James Watson si recò in laboratorio la mattina presto, ed ebbe l'intuizione della sua vita: rimescolando i quattro tipi di tessere di un puzzle tridimensionale di cartone sul quale stava lavorando, che corrispondevano alla struttura chimica delle quattro lettere (A, T, G e C) dell'alfabeto del DNA, si accorse che esse combaciavano perfettamente a coppie (A con T, e G con C).
    A metà mattina il trentasettenne Francis Crick raggiunse il compagno di ricerca, e comprese immediatamente che la sua scoperta significava che il DNA aveva una struttura a doppia elica, costituita da due catene di lettere orientate in direzione opposta. All'ora di pranzo i due si recarono al loro solito pub, l'Eagle, e Crick annunciò modestamente ai commensali che, insieme a Watson, aveva appena scoperto il «segreto della vita».
    Fin dalle origini della sua storia cosciente l'uomo aveva infatti cercato di rispondere alla domanda più fondamentale che poteva porsi: . La «Cosa c'è di misterioso, magico, o addirittura divino, nella vita?». E la risposta che Watson e Crick avevano appena trovato era: «Niente!». La vita risultava infatti non essere altro che il prodotto di normali processi fisici e chimici, e per spiegarla non era neppure stato necessario inventare una nuova scienza, come qualcuno aveva supposto o temuto: bastava quella che già c'era.
    Per metabolizzare una simile risposta, che ci dovrebbe finalmente liberare dalla mitologia che per millenni ha avvolto nelle sue nebbie metafisiche il problema della vita, ci vorranno decenni. Lo dimostrano, ad esempio, le parole con cui il presidente Clinton annunciò ancora dalla Casa Bianca, il 26 giugno 2000, il completamento della prima bozza del genoma umano: «Oggi apprendiamo il linguaggio con il quale Dio creò la vita». E lo dimostrano le mille polemiche che accompagnano il DNA in ogni sua manifestazione, dagli Ogm alle staminali.
    In attesa che l'ora di DNA sostituisca, o almeno si affianchi, all'ora di religione nelle scuole, proviamo a ripercorrere, da un lato, la storia delle conquiste teoriche di mezzo secolo di biologia molecolare, e a dispiegare, dall'altro lato, il ventaglio delle applicazioni pratiche che la conoscenza del DNA ha reso possibili. Ci guida in questo compito uno dei più bei libri di divulgazione scientifica di questi anni, appena uscito in Italia: DNA. Il segreto della vita (Adelphi, pagg. 462, euro 39,50), che Watson stesso ha scritto per celebrare il cinquantenario della sua scoperta.
    Anche se, parlando di libri, bisognerebbe partire da Che cos'è la vita di Erwin Schrödinger (Adelphi, 1995): un testo di uno dei padri della meccanica quantistica, che ebbe un'influenza decisiva non solo per Watson e Crick, ma per tutta una generazione di biologi. Fu in quel libretto del 1944 che venne divulgata per la prima volta l'idea che si doveva pensare alla vita come a un processo di archiviazione e di trasmissione dell´informazione biologica, compressa in quello che Schrödinger chiamò il «codice ereditario». Capire che cosa fosse la vita richiedeva dunque l'identificazione del supporto e la decifrazione del linguaggio di questo codice.
    In quegli anni si pensava ancora che il supporto del codice genetico fossero le proteine, e il suo alfabeto i 20 amminoacidi.
    Il DNA era stato scoperto nel 1869 da Friedrich Miescher, in un poco romantico studio delle bende impregnate di pus fornitegli da un ospedale. Negli anni '30 si era capito che era costituito da una lunga molecola contenente quattro basi chimiche: le «lettere» A, T, G e C alle quali abbiamo già accennato. E nel 1944 Oswald Avery aveva finalmente dimostrato che era proprio questa molecola a contenere l'informazione genetica: poiché però la scoperta fu accettata dai genetisti ma avversata dai biochimici, Avery morí nel 1955 senza aver ricevuto il premio Nobel che meritava.
    Watson e Crick ricevettero il loro nel 1962, e la doppia elica contribuí a portare il DNA alla ribalta. A scanso di equivoci, l´idea che la molecola fosse costituita da un'elica non era affatto nuova: il grande chimico Linus Pauling, vincitore di ben due premi Nobel (per la chimica e la pace), aveva annunciato proprio nel 1953 un modello a tripla elica, poi risultato sbagliato. Anche Maurice Wilkins era convinto che si trattasse di un'elica, e cercò di determinarla non mediante modelli, come Watson e Crick, ma attraverso la diffrazione a raggi X: le foto del suo laboratorio fornirono una conferma della struttura, e Wilkins condivise con loro il premio Nobel nel 1962.
    Prima ancora che a Watson, Crick e Wilkins, il premio era andato nel 1959 ad Arthur Kornberg, per aver scoperto nel 1957 un enzima, detto DNA polimerasi, che lega fra loro le due eliche. Quanto alla loro separazione, che Crick aveva supposto avvenisse come in una cerniera lampo, e stesse alla base del processo di copiatura dell'informazione genetica, essa fu confermata nel 1954 da Matt Meselson e Frank Stahl, in quello che venne definito «il più bell'esperimento della biologia».
    Una volta compresi i dettagli della struttura della doppia elica, rimaneva da decifrare il codice genetico: come vengono specificati, usando un alfabeto di sole quattro lettere, i venti amminoacidi di cui sono costituite tutte le proteine? Nel 1961 Sydney Brenner e Crick scoprirono che inserire o eliminare una o due lettere nel DNA produce un effetto devastante, ma inserirne o eliminarne tre no, e capirono che nel primo caso si riscrivono tutte le parole, mentre nel secondo se ne perde solo una: le parole del codice genetico, dette «codoni», sono dunque di tre lettere. E poiché con un alfabeto di quattro lettere si possono fare 64 codoni distinti, il codice dev'essere ridondante.
    Nel 1961 Marshall Nirenberg scoprì che uno dei più semplici segmenti di DNA, costituito di sole A, produceva un particolare amminoacido (la fenilalanina): il codone corrispondente, dunque, doveva essere AAA. Insieme a Gobind Khorana, che mise a punto tecniche chimiche per fabbricare segmenti di DNA consistenti di un solo codone, Nirenberg riuscí nel giro di qualche anno a decifrare tutto il codice, e i due ottennero il premio Nobel nel 1968.
    Il passaggio dal DNA alle proteine non è però diretto, bensí mediato da una seconda forma di acido nucleico, chiamata RNA. Nel 1959 Crick proclamò il «dogma centrale» della biologia: l'informazione genetica va a senso unico, dal DNA all´RNA alle proteine. Per spiegare questo strano meccanismo, in cui l´uovo (il DNA) viene necessariamente prima della gallina (le proteine), Crick ipotizzò che l'RNA fosse stata la prima molecola genetica, in un'epoca in cui la vita era basata solo su di esso: il DNA sarebbe uno sviluppo successivo, probabilmente in risposta all´instabilità dell'RNA. Nel 1983 Tom Cech e Sidney Altman diedero la prima conferma che l'RNA era una sorta di «uovo-gallina» autocatalizzante, e ottennero il premio Nobel per la chimica nel 1989.
    Una volta compreso l'alfabeto e le parole del codice genetico, rimaneva da leggere l'intero libro: il genoma delle varie specie, uomo compreso. I capitoli di questo libro si chiamano geni, e la scoperta di come si attivano e si disattivano in un batterio intestinale (E. coli) valse il premio Nobel del 1965 a Jacques Monod e François Jacob: una coppia la cui popolarità rivaleggia con quella di Watson e Crick, grazie anche ai loro rispettivi libri Il caso e la necessità (Mondadori, 1970) e La logica del vivente (Einaudi, 1971).
    A sequenziare completamente il primo genoma, quello del virus PhiX174, fu Frederick Sanger, che vinse così il suo secondo premio Nobel in chimica nel 1980 (il primo l'aveva vinto nel 1958 per la sequenziazione della prima proteina, l'insulina). Al sequenziamento nel 1997 del primo genoma batterico, l'E. coli, seguì nel 1998 quella del verme C. elegans, che valse a John Sulton il premio Nobel nel 2002: benché composto di sole 959 cellule, e non più grande di una virgola, il verme ha ben 19.000 geni! Il genoma umano è stato invece sequenziato da un consorzio pubblico, inizialmente diretto da Watson, e da una compagnia privata, la Celera di Craig Venter: benché enormemente più grande e complesso, l'uomo ha solo 25.000 geni, pochi più del verme!
    Ma, come direbbe Thomas Eliot, quella che sembra la fine della storia, è invece soltanto un inizio. Ad attendere la biologia molecolare sono ora infatti i tre grandi progetti della genomica (comprendere la funzione dei singoli geni e la loro azione congiunta), della proteomica (sequenziare e studiare le proteine), e della trascrittomica (determinare quali geni siano attivi in una data cellula), con l'obiettivo di capire nei dettagli l´intero meccanismo della vita, dalla prima cellula all'intero organismo, per la maggior gloria dello spirito umano.

    Silverback 18/10/2004, 01:55
    http://ultimefile.forumfree.net/?t=2007445&st=180
    CITAZIONE
    La storia dei due acidi nucleici, l'acido desossiribonucleico, o DNA, e l'acido ribonucleico, o RNA, è la storia della biologia molecolare.
    Questa disciplina scientifica è nata indiscutibilmente con la scoperta della doppia elica del DNA a opera di James Dewey Watson e Francis Henry Compton Crick nel 1953, anche se non è noto con certezza chi abbia usato per primo il nuovo termine. In effetti, una delle prime menzioni scritte la si trova nel titolo di una "Harvey Lecture", Avventure in biologia molecolare, tenuta nel 1950 da William T. Astbury, un eclettico strutturista scozzese.
    La biologia molecolare è una scienza che studia le strutture del DNA e dell'RNA, i processi biochimici nei quali sono coinvolti i due acidi nucleici e, attraverso questi processi, l'organizzazione e i meccanismi di funzionamento dell'intero apparato cellulare, dalla sua biochimica alla sua fisiologia, dalla sua patologia alla sua riproduzione, a tutta la biologia nella sua formulazione più moderna.
    La scoperta degli acidi nucleici è tutta da attribuire a un giovane ricercatore, figlio e nipote d'arte, che rinunciò alla carriera medica a causa di una leggera debolezza d'udito e che decise di dedicarsi allo studio della fisiologia delle cellule linfatiche, e in particolare all'analisi delle loro proteine. Era il 1869 e Johann Friedrich Miescher, venticinquenne e da poco laureatosi in medicina a Basilea, nel tentativo di separare dal nucleo i componenti del protoplasma (oggi chiamato citoplasma) s'imbatté in un composto che doveva in seguito risultare decisamente diverso dalle proteine che stava cercando.
    Quel composto era particolarmente abbondante nel nucleo, conteneva fosforo e, in analogia con il fosfatide lecitina da poco scoperto nel laboratorio del suo mentore, Hernst Felix Hoppe-Seyler dell'Università di Tubinga, fu battezzato "nucleina".
    Purtroppo né lo stesso Miescher né i suoi contemporanei seppero apprezzare pienamente il possibile ruolo della nucleina nella trasmissione dei caratteri ereditari; le si attribuì piuttosto una funzione di immagazzinamento del fosforo cellulare e non si escludeva del tutto che si trattasse di una miscela meccanica di fosfati e proteine.
    Erano infatti le proteine che continuavano ad attrarre la massima attenzione, in quanto componenti principali della cellula e quindi più validi candidati alla funzione di vettori molecolari dell'informazione biologica. Che nel nucleo vi fossero anche composti diversi dalle proteine venne confermato nei vent'anni successivi: nel 1889 Richard Altmann propose il termine più specifico di "acido nucleico".
    Miescher era morto da cinque anni, senza che i suoi contemporanei gli riconoscessero meriti particolari. Tant'è che nel discorso funebre il suo collega E. Wille si era ritenuto quasi in dovere di scusare il compianto:"Se Miescher non riuscì a raggiungere risultati altissimi, i limiti vanno cercati in una certa mancanza di organizzazione e di determinazione del suo carattere".
    E' straordinaria l'analogia con la sorte dell'altro grande padre della biologia moderna, Gregor Mendel, che i suoi confratelli agostiniani di Brunn (ora Brno) ricordarono in morte per tanti pregi, ma non per aver scoperto il meccanismo di trasmissione dei geni e avere così fondato la genetica. E come i monaci di Brunn, ma certo con minore giustificazione, un'intera generazione di ricercatori continuò a ignorare le scoperte di Mendel fino a quando Ugo De Vries, Erich von Tschermack e Carl Correns (l'unico che secondo Thomas Hunt Morgan avrebbe potuto riscoprirle in modo del tutto indipendente) le riproposero all'attenzione degli studiosi. Era il 1900.
    Da allora inizia una sorta di Medioevo per gli acidi nucleici: mentre la genetica esplode con il recupero delle leggi di Mendel, la scoperta della meiosi e della mitosi, l'identificazione dei cromosomi e degli errori congeniti del metabolismo e la mutagenesi, lo studio degli acidi nucleici langue. E' rimarchevole che sino agli anni quaranta non si avesse alcuna idea della natura delle molecole responsabili dell'ereditarietà biologica e che sino al 1929 non fosse chiara la distinzione tra DNA ed RNA.
    La stessa terminologia rifletteva questa confusione. Il DNA era considerato l'acido nucleico degli animali, l'RNA quello delle piante.
    Al primo si dava infatti il nome di acido "timo-nucleico", dalla ghiandola (in genere ricavata dal vitello) più frequentemente usata come sorgente di DNA. L'RNA veniva allora anche chiamato acido "tritico-nucleico", oppure del lievito, per il fatto che i vegetali ne parevano particolarmente ricchi. Anche la struttura attribuita allo zucchero considerato caratteristico del DNA era inizialmente sbagliata.
    Phoebus A. T. Levene e collaboratori del Rockefeller Institute di New York, uno dei centri più importanti per lo studio degli acidi nucleici fin dall'inizio del secolo, ritenevano che fosse un esosio e non un pentosio.
    Fu quello stesso gruppo di ricerca del Rockefeller Institute a sostenere con particolare vigore la teoria del "tetranucleotide", originariamente proposta, poco prima della fine del XIX secolo, da Albrecht Kossel e A. Neumann e successivamente ripresa da molti ricercatori, tra i quali il giapponese H. Takahashi.
    Secondo questa teoria, gli acidi nucleici erano composti da solo quattro nucleotidi (due purinici e due pirimidinici) e quindi, data la loro monotona struttura e le loro ridotte dimensioni, non potevano rappresentare il supporto molecolare dell'ereditarietà biologica.
    E' degno di nota che proprio in un laboratorio vicino a quello di Levene, nello stesso Rockefeller Institute, Oswald T. Avery, Colin MacLeod e Maclyn McCarty si stavano sforzando di dimostrare che il princìpio trasformante, il pabulum che il medico inglese Fred Griffith nel 1928 aveva identificato come responsabile della conversione di cellule di Diplococcus pneumoniae non virulente in virulente, era il DNA.
    E' stato affermato, e con qualche ragionevolezza, che l'ipotesi del tetranucleotide sia stata una delle remore più gravi all'accettazione dell'importanza del DNA nella genetica. Nonostante ciò, a credito di Levene va ricordata l'introduzione dei termini "nucleotide" e "nucleoside", la scoperta che i nucleotidi erano legati fra loro attraverso legami fosfodiesterici tra gli OH in posizione 5' e 3', come fu in seguito confermato dal chimico Alexander R. Todd (poi laureato Nobel dai reali svedesi e nominato baronetto da quelli inglesi).
    A riguardo è interessante ricordare che nello sviluppo iniziale della chimica degli acidi nucleici ebbero un ruolo fondamentale le ricerche di natura bellica sugli alogenoderivati del fosforo, comune base dei gas nervini.
    Fu soprattutto grazie alle scoperte di Levene e in considerazione della presenza nell'RNA di uno zucchero (il ribosio) con un OH in posizione 2' (che impedisce a sequenze complementari di assumere una struttura a doppia elica del tipo B del DNA, conferendo una maggiore disponibilità a interazioni terziarie e a reazioni chimiche anche di tipo enzimatico), come anche di una base, l'uracile, diversa dalla corrispondente pirimidina (la timina, caratteristica del DNA), che si arrivò a distinguere il DNA dall'RNA. Ma per questo si dovette attendere il 1950, allorché l'inglese J.M. Gulland propose in modo esplicito l'esistenza entro le cellule viventi di due diversi acidi nucleici.
    Si arriva così alla vigilia della scoperta della doppia elica del DNA: da sei anni Avery e collaboratori avevano pubblicato il loro classico lavoro in cui si dimostrava che il princìpio trasformante era il DNA, ma l'impatto sugli addetti ai lavori era stato minimo, anche se ad Avery non mancarono onori e riconoscimenti (gli fu attribuita dalla Royal Society inglese la prestigiosa medaglia Copley).
    Ancora una volta si ha una dimostrazione della variabilità delle reazioni del mondo scientifico all'annuncio di grandi scoperte.
    Nella seconda metà degli anni quaranta la comunità dei ricercatori non credette al lavoro di Avery e dei suoi collaboratori.
    Per quanto sempre meno degradato (grazie al migliorare delle tecniche estrattive), il DNA che all'epoca i biologi molecolari riuscivano a purificare dalle cellule era ancora troppo piccolo rispetto alle dimensioni delle proteine per le quali avrebbe dovuto codificare, ed era a queste che si continuava ad attribuire un ruolo primario nella trasmissione dei caratteri ereditari. Fu un collega di Avery al Rockefeller Institute, R. Hotchkiss, a dimostrare che si poteva trasformare geneticamente il Diplococcus anche per altri caratteri, come la resistenza agli antibiotici.
    Grazie a tale scoperta venne eliminato il concetto, peraltro nebuloso, di pabulum, difficilmente conciliabile con il conferimento di fenotipi diversi come la virulenza e la resistenza agli antibiotici, e fu al contempo confermata l'importanza del DNA nel meccanismo dell'ereditarietà.
    Il suo riconoscimento divenne totale ed esplicito solo dopo il famoso esperimento, detto del frullatore, con cui Alfred D. Hershey e Martha Chase dimostrarono che fra i componenti di un fago di Escherichia coli (il T2, composto in parti uguali da DNA e proteine) bastava il solo DNA per infettare una cellula batterica e farle produrre un centinaio di particelle fagiche complete.
    Non si trattava certo dell'esperimento migliore tra i tanti che consacrarono il DNA, come molecola portatrice dell'ereditarietà biologica. Lo ammise lo stesso Hershey, ma era l'anno fatidico in cui James Watson e Francis Crick dovevano proporre il modello del DNA a doppia elica, ispirato dal lavoro di tanti ricercatori (Erwin Chargaff, Rosalind Franklin e Maurice Wilkins, tanto per citarne tre; e gia che ci sono faccio notare che non solo alla Franklin ma anche ad Avery non fu conferito il premio Nobel).
    Da allora il DNA e l'RNA hanno acquistato un interesse non facilmente uguagliabile nella storia delle scienze per varietà e per profondità.
    Questo interesse è diretto sia verso studi di base, teorici e sperimentali, sia verso applicazioni pratiche nei più disparati settori, dalla medicina alla produzione di energia, all'ecologia.
    Basti ricordare che dagli sviluppi della biologia molecolare degli acidi nucleici negli anni settanta sono nate l'ingegneria genetica e le biotecnologie.
    Ci sono ragioni per ritenere che molti, se non tutti, i segreti della biologia molecolare siano racchiusi nella struttura, o meglio nelle "strutture" del DNA. La doppia elica descritta da Watson e Crick nel 1953 come forma B si sta rivelando polimorfica: accanto alle forme tradizionali A e B si sono venute caratterizzando forme come la G (presente nei telomeri dei cromosomi eucariotici e così chiamata per l'abbondanza di residui G in un filamento); la H, tripla elica composta da due filamenti di pirimidine e uno di purine alternate fra loro e così chiamata dall'iniziale della parola inglese hinge, "perno", che questa struttura ricorda, e anche per indicare la sua dipendenza da ioni idrogeno per la sua stabilità; e soprattutto la Z, con la sua elica sinistrorsa e l'andamento a zig zag del legame fosfodiesterico.
    Altrettanto ricche, anche se per ora meno conosciute, sono le strutture dell'RNA: non si può infatti ignorare che sono state le ricerche sull'RNA a contribuire in modo determinante allo sviluppo della biologia molecolare. E' dallo studio delle piccole molecole degli RNA di trasferimento (tRNA) che si sono avviati filoni di ricerca quali il sequenziamento degli acidi nucleici, per anni limitato ai soli tRNA.
    Il primo gene sequenziato è stato infatti quello di un tRNA, il più abbondante fra quelli per l'alanina nel lievito, risolto e interpretato correttamente da Robert Holley nel 1965; e i primi geni sintetici sono stati quelli di due tRNA, prodotti da Har Gobind Khorana a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
    Insieme con Marshall Nirenberg, Khorana e Holley ricevettero nel 1968 il Nobel per i loro contributi alla decifrazione del codice genetico.

     
    Top
    .
150 replies since 7/3/2007, 01:15   6784 views
  Share  
.