ELOGIO DELLA DISEGUAGLIANZA

dal quotidiano "Il Foglio" - 3 Giugno 2006

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    ELOGIO DELLA DISEGUAGLIANZA

    Il professor Rhoads spiega perché è meglio che resista la differenza tra uomo e donna
    Le pari opportunità (per fortuna) sono solo un’inutile invenzione del femminismo


    di Marina Valensise

    L’uomo è mite, gentile, ma la sua diagnosi è forte e circostanziata. Parte dalla crisi demografica, per prendere di petto un tabù costitutivo del nostro tempo, come l’eguaglianza tra uomo e donna, e lanciarsi in un corpo a corpo col nichilismo postmoderno e il femminismo androgino che, a suo dire, lo alimenta. Steven E. Rhoads, però, non ha niente del bigotto. Non è un passatista pervertito che sogna la donna succube ai fornelli e l’uomo padrone onnipotente. Non è nemmeno un reazionario che vorrebbe fermare le lancette della storia. Ma un moderno studioso di scienze sociali educato alla ragione dai filosofi antichi, e per questo in grado di portare uno sguardo lucido e senza compiacenza sul dramma della società contemporanea, e denunciarne la corsa alla dissoluzione, la corrosione del tessuto comunitario, che va di pari passo col trionfo dell’individuo, arbitro assoluto dei propri diritti e piaceri, e soprattutto i rischi connessi alla deriva dei costumi sessuali e allo squilibrio demografico che ne consegue.

    “Ormai, nessuno fa più figli”, dice Steven E. Rhoads, in una pausa del suo soggiorno romano. “Mi chiedo come mai in Italia le nascite siano in caduta libera. Voi italiani come pure i francesi state morendo, con un tasso di natalità tra i più bassi del mondo, fermo all’1,3 per cento, quando per riprodursi dev’essere almeno del 2,1. Noi in America ci arriviamo grazie agli immigrati, ma anche perché siamo più religiosi di voi, che continuate ad accogliere emigrati di origine islamica con cinque o sei figli a testa, senza rendervi conto che alla lunga questo rischia di mettere in pericolo l’estensione delle vostre libertà”.

    Parla chiaro Steven E. Rhoads. E’ venuto a Roma per tenere una conferenza, di fronte a una sparuta platea di preti e seminaristi per lo più stranieri, alla Pontificia Università della Santacroce, ateneo ispirato dal fondatore dell’Opus Dei, José-Marìa Escrivá. Ma vive a Charlottesville, nello stato conservatore e sudista della Virginia, dove insegna da trent’anni politica economica nell’università fondata nel 1819 da Thomas Jefferson, che andava così fiero della sua impresa neoclassica, con la Rotonda palladiana costruita su imitazione del Pantheon, da annoverarla fra le pietre miliari della sua vita, accanto alla dichiarazione di indipendenza e alla proclamazione della libertà religiosa nello stato della Virginia. Dei padri fondatori, il professor Rhoads conserva intatta determinazione repubblicana, fatta di un misto di attenzione alla comunità e di oculata cura della virtù, secondo i modi antichi.

    Infatti è uno straussiano. Ha scoperto il diritto naturale e la filosofia politica frequentando i corsi di Allan Bloom a Cornell, quando il discepolo americano di Leo Strauss, l’ebreo tedesco, studioso di Maimonide e Senofonte, di Hobbes e Machiavelli, scampato al nazismo, poteva persino rischiare il posto, e di fatto lo perse emigrando a Toronto, piuttosto che piegarsi alla provocazione razziale e al quieto vivere imposto dal preside per farvi fronte. Quella di Bloom fu per Rhoads una lezione di non conformismo, di genuino amore per la verità,facilitata da una seduzione maieutica. “Un giorno, sentì che dicevo “Sold!” a un mio amico, per dire “mi hai convinto”. Si avvicinò con aria sorniona e disse: ‘Si può sapere di quale mercato state parlando?’. Era un ammaliatore. Entrava in classe con un foglietto di appunti striminzito. Lo posava sul tavolo, e cominciava a parlare a braccio, per ore, raccontandoci di Platone e di Rousseau, delle madri di Sparta che celebravano la morte dei figli caduti in guerra, dell’incontro tra Emile e Sophie, rinviato fuori tempo massimo per tener vivo l’infinito gioco dell’amore fatto di pudore e desiderio…”.

    Ricorda e si commuove. Quindi non è un bigotto Steven E. Rhoads. E nemmeno un cristiano rinato, come il presidente George W. Bush, che ha aperto agli straussiani la Casa Bianca.
    E’ un protestante, ma di quelli laici e secolarizzati che non vanno neanche a messa la domenica. “Mia madre” – ama dire – “a messa preferiva mandarci i figli, senza andarci lei” .
    E’ sposato da trent’anni con la prima e unica moglie, che gli ha dato tre figli maschi, uno statistico e due musicisti, e lo segue nel suo giro europeo come un’innamorata e per lui rappresenta di sicuro una fonte di ispirazione. Diana Rhoads, in effetti, insegna letteratura inglese a ragazzi talmente refrattari ai drammi romantici di Shakespeare che alla domanda, di che tipo di donna vorreste innamorarvi? possono persino rispondere:
    “Non sono ancora andato a letto con abbastanza donne per poterlo dire” , oppure chiosare: “scopare con una con cui sei già stato, è come ripetere un videogioco che hai già vinto” .
    Insomma, un modello di scafatezza generazionale, molto diffuso nei campus americani, pare. Un modello da incubo, al quale, sul versante opposto, corrisponde un senso di rabbia, impotenza e smarrimento. “A 13 anni, e sono ragazzine della buona borghesia di Washington,” racconta Rhoads, “fanno sesso orale così, per gioco. A 18, quando entrano al college, si sentono tagliate fuori se non praticano il ‘casual sex’ richiesto dai maschi predatori, ma non sanno trovare argomenti per evitare di caderne preda. E sono sempre le statistiche a rivelare che il 68 per cento delle adolescenti americane cade in depressione entro sei mesi dalla prima rottura sentimentale”.

    Dunque, in America, non solo si fanno pochi figli, ma le giovani generazioni, povere di poesia e prive di immaginazione, sembrano aver completamente perso il senso dell’amore, quanto meno nella sua accezione classica, quella cioè di una forza della natura che forgia i rapporti umani, tira fuori l’ìo dall’egoismo, instaura vincoli di dipendenza, sino a permeare la stessa vita sociale e i rapporti politici. E’ questo il motivo, oltre l’intento di rimediare all’ansia delle molte sue studentesse frustrate per essere state sedotte e abbandonate dopo un solo giro senza impegno, che ha spinto Steven E. Rhoads a scrivere un saggio dal titolo programmatico: “Taking Sex Differences Seriously” . Quando il libro è uscito, nel 2004, è stato salutato come un avvenimento da Harvey Mansfield, l’altro straussiano dell’Harvard University, che per arginare l’androginia femminista s’era messo a studiare “The Manliness” , tentando la rifondazione della virilità, alias “la sicurezza nella fede del rischio” . Da allora, il libro di Rhoads, selezionato dal Weekly Standard fra i migliori dell’anno, è al centro di un dibattito infuocato. Le sue tesi, contestate in America dalle femministe più ostinate, blandite da amministratori di polso, mobilitano religiosi e laici, liberal e conservatori, perché vanno al cuore del rapporto padri e figli, mogli e mariti, appassionando trentenni fuori rotta e teenagers disperate. E soprattutto sono tesi urticanti, ché mettono in causa The Right Nation e la sua stessa condizione di possibilità, prima ancora della sua sopravvivenza.

    Il bello è che queste tesi Rhoads non le professa in nome di idee astratte e vecchie teorie aristotelico-tomiste sull’inferiorità della donna, ma sulla base di ricerche d’avanguardia in campo medico, biologico, neurologico. Cita per esempio i recenti studi sull’autismo di Simon Baron-Cohen, il neurologo cognitivista di Cambridge che si è accorto come i bambini artistici siano in maggioranza maschi, e analizzando il comportamento dei neonati ha scoperto “The Essential Difference” titolo del suo libro, tradotto quasi clandestinamente da Mondatori nel 2003) esistente in natura tra il cervello dei maschi, programmato per operazioni di tipo sistematico, e quello delle femmine, che è di tipo empatico, più attento alla comprensione e all’interrelazione. “I neonati maschi” , spiega Rhoads, “sono attratti da figure geometriche, con le lucette intermittenti, mentre le femmine sembrano più attente ai volti delle persone. Baron-Cohen parla di empatia innata, e attraverso un’indagine sull’amniocentesi e il fluido fetale ha scoperto le cause ormonali di questa differenza, come per esempio la presenza più o meno alta di testosterone”. Sicché non esiste in natura l’eguaglianza di genere, come vorrebbe il femminismo androgino.
    Uomo e donna non sono eguali, ma diversissimi e lo sono sin dalla nascita, e anzi dal concepimento. La disuguaglianza non è il frutto di una scelta culturale, imposta dalla società e suffragata dall’abitudine, come pensava Betty Friedan, ma un dato di natura irriducibile.

    Da qui, poco ci corre a sostenere che uomo e donna non possono aspirare a un’assoluta parità di ruoli – come pretende l’ideologia di genere oggi dominante – salvo pagare il prezzo di uno snaturamento. Meglio, dunque, ripudiare l’androginia e i suoi imperativi di uniformità: meglio disfarsi dei tailleur unisex e riscoprire gonne al ginocchio e vestitini, rinunciare alle creme idratanti for men, e smettere di competere nella cura dei pargoli, come il padre mammo che contende alla moglie executive cambio di pannolini e biberon. “La gente crede che uomini e donne siano uguali, e che comunque lo sarebbero se la società non imponesse loro come comportarsi.
    Ora, io non sono d’accordo. E ho cercato di spiegare quanto sia importante la differenza sessuale, anche se le donne, quando ne sentono parlare, pensano di esserne penalizzate, mentre è vero il contrario. Ne hanno solo da guadagnare”.


    A suffragare l’argomento interviene, secondo Rhoads, un altro dato impensabile solo cinque anni fa e però incontestabile, stando alle antenne di Maureen Dowd, che oggi confessa di restare interdetta di fronte all’ostentazione con cui molte donne si fregiano del Mrs. davanti al cognome. L’abbreviativo riservato alle signore sposate, sta ormai scalzando, persino in redazione al New York Times, il ben più egalitario Ms., conquistato dopo aspre battaglie per meglio tutelare lo stato civile di nubili, coniugate e divorziate. Il fatto è che la rivoluzione femminista cominciata negli anni Settanta si è insabbiata. Le donne oggi vogliono tornare a casa. Preferiscono occuparsi dei figli, preparare torte e marmellate.
    E molte sono pronte a smettere di lavorare anche se hanno un ottimo curriculum, e magari sono appena diventate socio di un mega studio legale. “Sessant’anni fa” , ricorda Steven E. Rhoads, “Simone de Beauvoir sosteneva che bisognava costringere le donne a uscire di casa perché andassero a lavorare, tanto era piacevole stare tutto il tempo con i figli. Oggi le donne possono fare quello che vogliono. Ma dopo il primo figlio, sono sempre meno quelle disposte a lavorare quindici ore al giorno. Da un sondaggio, realizzato su un campione di donne ad alta formazione professionale e apparso l’autunno scorso sul New York Times, risulta che solo il 26 per cento pensa che la nascita di un figlio limiti la carriera, mentre il 60 sarebbe pronto a lasciare la carriera o scegliere un part-time dopo il primo figlio. Di fatto, negli Stati Uniti le donne che tornano a lavorare entro il primo anno di vita del figlio sono scese dal 62 al 58 per cento. E il calo interessa soprattutto quelle con una carriera affermata”.

    Non solo cifre, quindi, ma emozioni. Non solo statistiche, ma stili di vita. Se Gwyneth Paltrow è già al secondo figlio e Angelina Jolie in coppia con Brad Pitt funge da testimonial universale della neofamiglia rigogliosa, è “Foreign Affairs” a scommettere con Phillip Longman sul ritorno del patriarcato. “La famiglia tradizionale ha molti figli, le femministe uno solo. Il loro è un modello in via di estinzione”, commnenta Steven E. Rhoads che insiste sulla natura empatico-accuditiva delle donne, sulla loro forza di connessione, fondamentale per fondare famiglie e tessere legami. “Posto che le donne non amano il ‘casual sex’, ma aspirano a una relazione stabile, posto che vorrebbero sposarsi e non ci riescono, tant’è che le trentenni nubili sono salite negli ultimi quarant’anni dal 12 al 33 per cento della popolazione, la domanda da porsi è un’altra:
    Cosa fa di una donna sposata una donna felice?”
    . La domanda se l’è posta sulla rivista cattolica “Social Forces” un giovane collega del professore alla University of Virginia, il sociologo W. Braxdford Wilcox, famoso per uno studio (“Soft Patriarchs, New Men. How Christianity Shapes Fathers and Husbands” , University of Chicago Press, 2004) sul diverso approccio di evangelici e protestanti alla famiglia e alla prole, che dimostra la forza della religione nell’addomesticazione e nella responsabilizzazione del maschio “Wilcox ha considerato ogni possibile opzione”, dice Rhoads, “una carriera importante, un buon stipendio per evitare che tuo marito ti tratti come una schiava. Alla fine ha scoperto che il fattore principale della felicità di una donna è il coinvolgimento emotivo del marito. Le più felici sono quelle che dicono di dialogare molto spesso con lui, di andare molto spesso a cena fuori insieme oppure al cinema. In tutto, il 57 per cento di quelle che non lavoravano, e il 45 per cento di quelle che lavoravano. Nell’insieme, persino fra le femministe che lavorano, le più felici risultano essere quelle sposate con un uomo che guadagna due terzi in più di loro”.

    Crolla così un altro tabù dell’eguaglianza di genere cara al femminismo androgino. Le pari opportunità, per quanto sacrosante, col loro corollario a lavoro uguale salario uguale, non bastano a rendere una donna felice. D’altra parte, quale donna ammetterebbe di essere gratificata da un marito che guadagna meno di lei? Non parliamo del condividere i lavori domestici che restano appannaggio esclusivo femminile, vista l’alta percentuale di donne che si sobbarcano il doppio lavoro, senza farne una condizione di infelicità. Persino in Svezia, dove il congedo parentale dura un anno e mezzo, solo il 3 per cento dei mariti vi si associa nei primi sei mesi dalla nascita del figlio, e pare solo per non perdere un mese di ferie. Eppure, la marcia dell’eguaglianza è inarrestabile. Già le donne ottengono negli studi risultati migliori degli uomini. E si calcola che entro il 2010 in America ci saranno 4 donne laureate ogni 3 uomini laureati. Riusciranno mai a sposarsi ed essere felici? Per correre ai ripari, c’è già chi insiste sulla necessità di ripristinare le classi separate come Leonard Sax, un biologo che ha spiegato “Why genders matters?” (Random House 2005), e perché i maschi stentano a seguire le lezioni di insegnanti donne che ormai anche in America sono la maggioranza: “Per l’esattezza, il 90 per cento” dice Rhoads. “Parlano a bassa voce, e i maschi che siedono in fondo alla classe non riescono a sentire quello che dico. Poi, convinte come sono che nel mondo ci sia troppa aggressività e competizione, danno da leggere ai ragazzi libri sentimentali, quando è noto che i maschi s’appassionano solo a storie di guerra e di avventure. Quanto alla disciplina, l’incomprensione è totale. Se a un adolescente che si è comportato male con una ragazza, gli dici, ‘Hai sbagliato. E’ una cattiva azione. Cosa proveresti se uno facesse a te la stessa cosa?’ ‘Gli menerei’ risponde quello. Capisce? I maschi, non provano sentimenti. Ignorano le conseguenze di un danno. Passano direttamente all’atto”.
    Dunque, per migliorare i rapporti tra i sessi a quell’età, ci vuol ben altro rimedio radicale. Più che separare maschi e femmine, bisogna tenerli lontani, insegnando loro l’astinenza. Non per niente, quest’estate a Charleston nella Carolina del Sud, uno dei pochi stati americani dove per legge l’unica educazione sessuale ammessa nelle scuole pubbliche è l’astinenza, per formare 190 insegnanti, e insegnare loro a insegnare ai loro allievi la virtù, hanno pensato bene di chiamare proprio il professor Steven E. Rhoads.


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    Edited by ventiluglio - 8/7/2006, 18:31
     
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