Uomo in rivolta

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  1. Milo Riano
     
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    Camus somiglia a Humphrey Bogard ed io non sono un filosofo (questa frase potrebbe non significare niente).

    Dubito che sia applicabile alla QM (o forse sì?), comunque per il momento lo metto in OT; poi lo Staff decide.

    10 paginette sono meno del 5% consentito dalla legge sul copyright per scopo informativo o insegnamento o discussione... probabilmente è così, ma è da valutare. Mentre si valuta, leggetelo.

    Qualcosa in generale su Camus, qui:

    http://www.nexusedizioni.it/apri/Argomenti...-Paolo-Cortesi/

    http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=10960





    image



    Albert Camus, L’ Uomo in rivolta, Bompiani, pp. 17-27.

    Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo “no”?

    Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo”, “fin qui sì, al di là no”, “vai troppo in là” e anche “c’è un limite oltre il quale non andrai”. Insomma, questo no afferma l’esistenza di una frontiera. Si ritrova la stessa idea di limite nell’impressione dell’uomo in rivolta che l’altro “esageri”, che estenda il suo diritto al di là di un confine oltre il quale un altro diritto gli fa fronte e lo limita. Così, il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull’impressione, nell’insorto, di avere “il diritto di...”. Non esiste rivolta senza la sensazione d’avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione. Appunto in questo lo schiavo in rivolta dice ad un tempo di sì e di no. Egli afferma, insieme alla frontiera, tutto ciò che avverte e vuol preservare al di qua della frontiera. Dimostra, con caparbietà, che c’è in lui qualche cosa per cui “vale la pena di...”, qualche cosa che richiede attenzione. In certo modo, oppone all’ordine che l’opprime una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli possa ammettere.

    Insieme alla ripulsa rispetto all’intruso, esiste in ogni rivolta un’adesione intera e istantanea dell’uomo a una certa parte di sé. Egli fa dunque implicitamente intervenire un giudizio di valore, e cosi poco gratuito, che lo mantiene in mezzo ai pericoli. Fino a quel punto taceva almeno, abbandonato a quella disperazione nella quale una condizione, anche ove la si giudichi ingiusta, viene accettata. Tacere è lasciar credere che non si giudichi né desideri niente e, in certi casi, è effettivamente non desiderare niente. La disperazione, come l’assurdo, giudica e desidera tutto, in generale, e nulla, in particolare. Ben la traduce il silenzio. Ma dal momento in cui parla, anche dicendo no, desidera e giudica. La rivolta, in senso etimologico, è un voltafaccia. In essa, l’uomo che camminava sotto la sferza del padrone, ora fa fronte. Oppone ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Non tutti i valori trascinano con sé la rivolta, ma ogni moto di rivolta fa tacitamente appello a un valore. Si tratta almeno di un valore?

    Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di coscienza: la percezione, ad un tratto sfolgorante, che c’è nell’uomo qualche cosa con cui l’uomo può identificarsi, sia pure temporaneamente. Questa identificazione, fin qui, non era realmente sentita. Tutte le concussioni anteriori al moto d’insurrezione, lo schiavo le sopportava. Sovente, anzi, aveva ricevuto senza reagire ordini più rivoltanti di quello che fa prorompere il suo rifiuto. Portava pazienza, respingendoli forse in se stesso, ma poiché taceva, si mostrava più sollecito, per il momento, del proprio interesse immediato che cosciente del proprio diritto. Con la perdita della pazienza, con l’impazienza, comincia al contrario un movimento che può estendersi a tutto ciò che veniva precedentemente accettato. Questo slancio è quasi sempre retroattivo. Lo schiavo, nell’attimo in cui respinge l’ordine umiliante del suo superiore, respinge insieme la sua stessa condizione di schiavo. Il moto di rivolta lo porta più in là del semplice rifiuto. Egli oltrepassa anche il limite che fissava al suo avversario, chiedendo ora di essere trattato da pari a pari. Quanto era dapprima resistenza irriducibile dell’uomo, diviene l’uomo intero che con essa s’identifica e vi si riassume. Quella parte di sé che voleva far rispettare, la mette allora al di sopra del resto, e la proclama preferibile a tutto, anche alla vita. Essa diviene per lui il sommo bene. Prima adagiato in un compromesso, lo schiavo si getta di colpo (“se è così…”) nel Tutto o Niente. La coscienza viene alla luce con la rivolta.

    Ma come si vede, essa è coscienza, ad un tempo, di un “tutto” ancora piuttosto oscuro, e di un “niente” che annuncia la possibilità del sacrificio a questo tutto. L’uomo in rivolta vuole essere tutto, identificarsi totalmente con quel bene di cui a un tratto ha preso coscienza e che vuole sia riconosciuto e salutato nella propria persona - o niente, vale a dire trovarsi definitivamente scaduto per opera della forza che lo domina. Al limite, accetta quella estrema caduta che è la morte, se deve essere privo di quella consacrazione esclusiva che chiamerà, per esempio, la propria libertà. Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio.

    Il valore, secondo i testi, “rappresenta per lo più un passaggio dal fatto al diritto, dal desiderato al desiderabile (in generale attraverso il comunemente desiderato”. Il passaggio al diritto è patente, come abbiamo visto, nella rivolta. E cosi il passaggio dal “ciò dovrebbe essere” al “voglio che ciò sia”. Ma più ancora, forse, quel concetto di superamento dell’individuo in un bene ormai comune. L’insorgere del Tutto o Niente mostra che la rivolta, contrariamente all’opinione comune, e benché nasca in quanto c’è di più strettamente individuale nell’uomo, mette in causa lo stesso concetto d’individuo. Infatti, se l’individuo accetta di morire, e muore quando se ne presenta l’occasione, nel suo moto di rivolta, mostra con questo di sacrificarsi a pro di un bene che egli giudica trascendente il proprio destino. Se preferisce l’eventualità della morte alla negazione del diritto che difende, è perché pone quest’ ultimo al disopra di sé. Agisce dunque in nome di un valore, ancora confuso, ma che avverte, almeno, di avere in comune con tutti gli uomini. Vediamo dunque che l’affermazione implicita in ogni atto dì rivolta si estende a qualche cosa che eccede l’individuo in quanto lo trae dalla sua supposta solitudine e gli fornisce una ragione d’agire. Ma importa osservare fin d’ora che questo valore preesistente ad ogni azione contraddice alle filosofie puramente storicistiche nelle quali il valore viene conquistato (ove lo si conquisti) al termine dell’azione. L’analisi della rivolta conduce almeno al sospetto che esista una natura umana, come pensavano i Greci, e contrariamente ai postulati del pensiero contemporaneo. Perché rivoltarsi se non s’ha, in se stessi, nulla di permanente da preservare? È per tutte le esistenze a un tempo che insorge lo schiavo quando giudica che, da un determinato ordine, viene negato in lui qualche cosa che non gli appartiene esclusivamente, ma che è luogo comune in cui tutti gli uomini, anche quello che l’insulta e l’opprime, hanno pronta una comunità [1].

    Corroboreranno questo ragionamento due osservazioni. Si noti innanzi tutto che il moto di rivolta non è, nella sua essenza, un moto egoista. Può avere senza dubbio delle determinanti egoistiche. Ma ci si ribellerà contro la menzogna quanto contro l’oppressione. Inoltre, muovendo da queste determinanti, e nel suo slancio più profondo, l’uomo in rivolta non preserva niente, poiché pone tutto in gioco. Senza dubbio, esige per sé il rispetto, ma nella misura in cui s’identifica con una comunità naturale.

    Osserviamo inoltre che la rivolta non nasce soltanto e necessariamente nell’oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell’oppressione di cui è vittima un altro.

    C’è dunque, in questo caso, identificazione con l’altro individuo. E bisogna precisare che non si tratta di una immedesimazione psicologica, sotterfugio per il quale l’individuo, nella sua immaginazione, sentirebbe che l’offesa gli viene personalmente diretta. Può al contrario accadere che non si sopporti di veder infliggere altrui offese che noi stessi abbiamo subite senza rivolta. I suicidi di protesta, all’ergastolo, fra i terroristi russi i cui compagni venivano frustati, illustrano questo grande movimento. Né si tratta del senso di una comunione d’interessi. Possiamo infatti trovare rivoltante l’ingiustizia imposta ad uomini che consideriamo nostri avversari. C’è soltanto una identificazione di destini, e un prender partito. L’individuo non è dunque, in se stesso, quel valore che egli vuole difendere. Occorrono almeno tutti gli uomini per costituirlo. Nella rivolta, l’uomo si trascende nell’altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica. Semplicemente, si tratta per ora soltanto di quel genere di solidarietà che nasce tra le catene.

    Si può meglio precisare l’aspetto positivo del valore presunto da ogni rivolta paragonandolo a un concetto affatto negativo come il concetto di risentimento, quale l’ha definito Scheler [2]. In realtà, il moto di rivolta è più che un atto di rivendicazione, nel senso più forte della parola. Il risentimento è molto ben definito da Scheler come un’autointossicazione, la secrezione nefasta, in vaso chiuso, di un’impotenza prolungata. Al contrario la rivolta frange l’essere e l’aiuta a traboccare. Libera dei flutti i quali, da stagnanti come erano, divengono furiosi. Lo stesso Scheler pone in risalto l’aspetto passivo del risentimento, notando quanto posto esso occupi nella psicologia delle donne, destinate al desiderio e al possesso. Alla radice della rivolta sta invece un principio di attività sovrabbondante e di energia. Scheler ha ragione di dire che l’invidia incide fortemente sul risentimento. Ma s’invidia ciò che non s’ha, mentre nella rivolta l’uomo difende ciò che egli stesso è. Non reclama soltanto un bene che non possiede o di cui sia stato privato. Mira a far riconoscere qualche cosa che ha, e che egli stesso, in quasi tutti i casi, ha già riconosciuto più importante di ciò che potrebbe invidiare. La rivolta non è realista. Sempre per Scheler, il risentimento, a seconda che cresca in un animo forte o debole, si fa arrivismo o acredine. Ma in ambedue i casi, si vuole essere altri da ciò che si è. Il risentimento è sempre risentimento contro se stessi. Invece, nel suo primo movimento di rivolta, l’uomo rifiuta di lasciarsi toccare in quello che è. Lotta per l’integrità di una parte del proprio essere. Non cerca innanzi tutto di conquistare, ma d’imporre.

    Pare infine che il risentimento si diletti in anticipo di un dolore che vorrebbe veder provare all’oggetto del suo rancore. Nietzsche e Scheler hanno ragione di vedere una bella esemplificazione di questa sensibilità nel passaggio in cui Tertulliano informa i lettori che in cielo la maggior fonte di felicità, per i beati, sarà lo spettacolo degli imperatori romani consumati all’inferno. È la stessa felicità della brava gente che andava ad assistere alle esecuzioni capitali. Invece la rivolta, da principio, si limita a rifiutare l’ umiliazione, senza chiederla per altri. Accetta persino il dolore per sé, purché la sua integrità venga rispettata.

    Non si comprende dunque perché Scheler identifichi assolutamente lo spirito di rivolta con il risentimento. La sua critica del risentimento nell’umanitarismo (che egli considera, nella sua trattazione, come la forma non cristiana dell’amore per gli uomini) s’applicherebbe forse a certe forme vaghe d’idealismo umanitario, o alle tecniche del terrore. Ma non può applicarsi alla rivolta dell’uomo contro la propria condizione, al moto che solleva l’individuo in difesa di una dignità comune a tutti gli uomini. Scheler vuol dimostrare che l’umanitarismo va di pari passo con l’odio per il prossimo. Si ama l’umanità in generale per non dover amare gli esseri in particolare. È giusto, in qualche caso, e si comprende meglio Scheler quando si veda che per lui l’umanitarismo è rappresentato da Bentham e Rousseau. Ma la passione dell’uomo per l’uomo può nascere da altri elementi che non siano il calcolo aritmetico degli interessi, o una fiducia, del resto teorica, nella natura umana. Di fronte agli utilitaristi e al precettore d’ Emile, c’è per esempio quella logica, incarnata da Dostojevskij in Ivan Karamazov, che va dal moto di rivolta all’insurrezione metafisica. Scheler, che lo sa, riassume così questa concezione: “Non c’è al mondo abbastanza amore perché lo si sprechi altrimenti che sull’essere umano”. Anche se quest’ affermazione fosse vera, la vertiginosa disperazione che essa presuppone meriterebbe ben altro che il disdegno. Infatti, essa misconosce il carattere straziato della rivolta di Karamazov. Il dramma d’Ivan, al contrario, nasce dall’esservi troppo amore senza oggetto. Quest’amore che, negato Dio, rimane inutilizzato, ci si decide allora a trasferirlo sull’essere umano in nome di una generosa complicità.

    D’altra parte, nel moto di rivolta quale l’abbiamo sin qui considerato non si elegge un ideale astratto, per povertà di cuore, e allo scopo di una sterile rivendicazione. Si esige che venga considerato quanto, nell’uomo, non può ridursi all’idea, quella parte calorosa che a null’altro può servire se non ad essere. Questo significa che nessuna rivolta sarebbe carica di risentimento? No, e lo sappiamo abbastanza nel secolo dei rancori. Ma dobbiamo assumere questo concetto nella sua più larga comprensione sotto pena di tradirlo, e a questo riguardo, la rivolta da ogni parte eccede il risentimento. Quando, in Cime Tempestose, Heathcliff preferisce il suo amore a Dio e chiede l’inferno pur di essere riunito all’amata, non è solo la sua giovinezza umiliata a parlare, ma la bruciante esperienza di un’intera vita. Lo stesso moto fa dire a maestro Eckart, in un sorprendente accesso d’eresia, che preferisce l’inferno con Gesù al cielo senza di lui. È il moto stesso dell’amore. Contro Scheler, non insisteremo mai troppo sull’affermazione appassionata che scorre nel moto di rivolta e lo distingue dal risentimento. Negativa in apparenza, poiché nulla crea, la rivolta è profondamente positiva poiché rivela quanto, nell’uomo, è sempre da difendere.

    Ma infine, questa rivolta e il valore di cui è veicolo non sono forse relativi? Infatti, con le epoche e le civiltà, le ragioni che determinano la rivolta sembrano mutare. È evidente che un paria indiano, un guerriero dell’impero Inca, un primitivo dell’Africa centrale, o un membro delle prime comunità cristiane non avevano la stessa idea della rivolta. Si potrebbe anche stabilire, col massimo delle probabilità, che il concetto di rivolta non ha senso in questi casi precisi. Tuttavia uno schiavo greco, un servo della gleba, un condottiero del Rinascimento, un borghese parigino della Reggenza, un intellettuale russo del primo ‘900 e un operaio contemporaneo, se anche potevano dissentire sulle ragioni della rivolta, consentirebbero senza dubbio sulla sua legittimità. In altre parole, il problema della rivolta si esprime nelle società in cui le disuguaglianze siano molto grandi (regime delle caste indiane) o, al contrario, in quelle ove l’eguaglianza sia assoluta (certe società primitive). Nella società, lo spirito di rivolta è possibile solo nei gruppi in cui un’eguaglianza teorica celi grandi disuguaglianze di fatto. Il problema della rivolta dunque non ha senso se non entro la nostra società occidentale. Si potrebbe allora essere tentati d’affermare che esso è relativo allo sviluppo dell’individualismo, se le precedenti osservazioni non ci avessero messo in guardia contro questa conclusione.

    Sul piano dell’evidenza, questo soltanto si può dedurre dall’osservazione di Scheler, che effettivamente, con la teoria della libertà politica, esiste in seno alle nostre società un ampliamento, nell’uomo, del concetto d’uomo, e per l’esercizio di questa stessa libertà, una corrispondente insoddisfazione. La libertà di fatto non s’è accresciuta proporzionalmente alla coscienza che ne ha preso l’uomo. Da questa osservazione si può dedurre soltanto questo: la rivolta è propria all’uomo avvertito, che abbia coscienza dei propri diritti. Ma nulla ci permette di dire che si tratti soltanto dei diritti dell’individuo. Al contrario, per la solidarietà già segnalata, sembra proprio che si tratti d’una coscienza di sé sempre più estesa che la specie umana consegue nel corso della sua avventura. Di fatto, il suddito dell’Inca, o il paria non si pongono il problema della rivolta, perché esso è già stato risolto per loro in una tradizione, e prima che abbiano potuto porselo, consistendo la risposta in una concezione religiosa. Se nel mondo religioso non si trova il problema della rivolta, si è che in verità non vi si trova alcuna problematica reale, tutte le risposte essendo date in una volta. La metafisica è sostituita dal mito. Non ci sono più interrogativi, ci sono soltanto risposte ed eterni commenti, che possono allora essere metafisici. Ma prima di entrare nel campo religioso, ed anche per entrarvi, o appena ne esce, ed anche per uscirne, l’uomo è interrogazione e rivolta. L’uomo in rivolta è l’uomo che sta prima o dopo l’universo sacro, e si adopera a rivendicare un ordine umano in cui tutte le risposte siano umane, cioè razionalmente formulate. Da quell’istante, ogni interrogazione, ogni parola è rivolta, mentre nel mondo religioso, ogni parola è rendimento di grazie. Sarebbe possibile mostrare così come non vi possano essere per uno spirito umano che due soli universi possibili, l’universo religioso (o per parlare il linguaggio cristiano, della grazia) [3], e quello della rivolta. La scomparsa dell’uno equivale alla comparsa dell’altro, sebbene questa comparsa possa avvenire in forme sconcertanti. Anche qui, ritroviamo il Tutto o Niente. L’attualità del problema della rivolta deriva solo dal fatto che oggi intere società hanno voluto assumere una posizione di distanza rispetto ad ogni universo sacro. Viviamo in una storia sconsacrata. L’uomo, certo, non si riassume nell’insurrezione.

    Ma la storia di oggi, con le sue contestazioni, ci costringe a dire che la rivolta è una delle dimensioni essenziali dell’uomo. È la nostra realtà storica. A meno di fuggire la realtà, dobbiamo trovare in essa i nostri valori. Si può, lungi dall’universo religioso, e dai suoi valori assoluti, trovare una regola di condotta? È questa la domanda posta dalla rivolta. Abbiamo già potuto registrare il valore confuso che nasce a quel limite sul quale si mantiene la rivolta. Dobbiamo chiederci ora se questo valore si ritrovi nelle forme contemporanee di rivolta, sia nel pensiero che nell’azione, e se si trova, precisarne il contenuto. Ma, notiamolo prima d’andar oltre, il fondamento di questo valore sta nella rivolta stessa. La solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta, e questo, reciprocamente, solo in tale complicità trova giustificazione. Saremmo dunque in diritto di dire che ogni rivolta che s’autorizzi a distruggere questa solidarietà perde con questo il nome di rivolta e coincide in realtà con un assenso omicida. Allo stesso modo questa solidarietà, fuori dell’universo religioso, prende vita soltanto sul piano della rivolta. Il vero dramma della rivolta del pensiero è allora annunciato. Per essere, l’uomo deve rivoltarsi, ma la sua rivolta deve rispettare il limite che scopre in se stessa; limite nel quale gli uomini, venendo a raggiungersi, cominciano ad essere. Il pensiero informato alla rivolta non può dunque prescindere dalla memoria: esso è tensione perpetua. Seguendolo nelle opere e negli atti, dovremo dire, ogni volta, se rimanga fedele alla sua primitiva nobiltà oppure, per stanchezza e pazzia, se ne scordi, in un’ebbrezza di tirannia o di servitù.

    Intanto, ecco il primo progresso che lo spirito di rivolta fa compiere ad una riflessione da principio compenetrata dell’assurdità e dell’apparente sterilità del mondo. Nell’esperienza, assurda, la sofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti. Il primo progresso di uno spirito intimamente straniato sta dunque nel riconoscere che questo suo sentirsi straniero, lo condivide con tutti gli uomini, e che la realtà umana, nella sua totalità, soffre di questa distanza rispetto a se stessa e al mondo. Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva. In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. E’ un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo.


    [1] La comunione delle vittime è la stessa che unisce le vittime al carnefice. Ma il carnefice non lo sa.

    [2] La crisi dei valori (Bompiani, 1936).

    [3] Beninteso, esiste una rivolta metafisica all’inizio del cristianesimo, ma la resurrezione di Cristo, 1annuncio della parusia e il regno di Dio interpretato come una promessa di vita eterna, sono le risposte che la ier)dOno vana.


     
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  2. nicolekidmanvogliosposarti
     
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    camus è in assoluto uno dei più grandi scrittori e filosofi del 900.sicuramente il più grande esistenzialista.

    RINGRAZIO MILO DAVVERO TANTO.

    sottovalutato da una certa cultura "marxista" che lo bollava per le sue posizioni e lo accusava spesso di tradimento.
    la sua disillusione verso la vita era qualcosa di meraviglioso.
    il suo era un pessimismo atipico,un pessimismo positivo.
    sapeva che le cose non potevano cambiare e si rendeva conto che l'essere umano era imperfetto.l'essere umano viveva in una condizione di assurdo.ma da ciò non scaturiva tristezza ma positività.l'uomo non potrà mai essere corretto,ma proprio per questo bisogna accettare la vita così come viene,cercare di cambiare in meglio,questo si,ma evitare di voler pensare di purificare il mondo dal male,cosa che crerebbe soltanto morte,dittatura e totalitarismo.
    da qui le sue posizioni critiche verso sartre che invece parlava di "morti giusti" e "violenza necessaria" per far si che il mondo sia salvato e giustificava l'invasione dell'ursss in ungheria.camus rispondeva a sartre che la sua utopia era solo illusione e che l'unica cosa che si vedeva erano i morti.da qui parte l'idea di camus sull'autoinganno.sartre come molti altri intellettuali e persone si "autoingannavano".in realtà sapevano benissimo che non ci sarebbe mai stato un mondo perfetto,ma facevano finta di non sapere,come facevano finta di non vedere i morti e le cose che non gli piacevano.
    grandissima la critica di camus a questi intellettuali.parlano di popolo e sono in realtà borghesi.camus che invece veniva dalla miseria delle strade algerine,che aveva passato la sua infanzia giocando a pallone nei rioni,ammalato,con una madre analfabeta e sempre muta a causa di una forma di malattia aveva invece visto con i suoi occhi il male,l'aveva vissuto e quindi lo capiva.
    tanto da rispondere a questi "i marxisti mi vogliono insegnare la libertà,io la libertà lho imparata nelòle strade povere dell'algeria".

    iul male c'è in tutti noi.cercare di negarlo è autoillusione e distorsione della realtà.il racconto del missionario che va ad evangelizzare le tribù c'è lo fa capire benissimo.questo missionario arriva e viene catturato dagli indigeni.questi gli tagliano la lingua e lo obbligano a venerare un loro dio malvaggio e sanguinario.con l'andare del tempo il missionario comincia a sentire l'amore per il male e ad amare davvvero il dio malvaggio.
    idem si vede ne "la peste" e nel saggio "il mito di sisifo".
    l'unica speranza è "l'uomo in rivolta" di cui parlava milo.una rivolta che però è umana,molto diversa dalle utopie di quegli anni.

    leggerò attentamente il post di milo.scusate ma camus per me è un maestro di vita e non ho resistito a scrivere.
    seguo un signore disabile che è uno scrittore ed è stato vicino al p.s.i. di craxi e che mi ha insegnato molto su camus e mi ha fatto leggere tutto.

    bellissime anche le opere teatrali.grandissimo "caligola" in cui la figura dell'imperatore romano è vista in chiave non negativa,ma come colui che accetta di essere viziosa e di questo farà la sua forza.

    CAMUS PUò ENTRARCI E COME CON LA QM :) ! QUANDO SIMONE DE BEAOUVOIR SCRISSE IL LIBRO "IL SECONDO SESSO" CAMUS DOPO AVERLO LETTO GLIELO TIRò PRATICAMENTE IN FACCIA E QUASI GLI VENIVA DA DIRE: "TI PENSAVO PIù INTELLIGENTE" :lol:

    c'è da aggiungere che durante la francia di vichy camus subì la repressione del regime filo-nazista,mentre sartre e gli altri che dopo facevano i marxisti un poò qua e un pò la invece si facevano pubblicare loe commedie,rappresentarle,ecc. :rolleyes: camus invece amava la libertà.e la amava davvero!

    l'unica cosa che dispiace è che è morto giovane.avrebbe sennò davvero dato ancora tanto alla cultura occidentale.
    una morte poi assurda,assurda come ciò che lui riteneva essere la condizione umana.


     
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  3. ilmarmocchio
     
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    @ Nicole : eccellente l'analisi delle differenze tra Camus e gli altri ( Sartre in particolare).
    C'entra eccome con la q.m. e ha fatto benissimo Milo Riano a inserire il brano
     
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  4. nicolekidmanvogliosposarti
     
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    CITAZIONE (ilmarmocchio @ 16/4/2009, 23:01)
    @ Nicole : eccellente l'analisi delle differenze tra Camus e gli altri ( Sartre in particolare).
    C'entra eccome con la q.m. e ha fatto benissimo Milo Riano a inserire il brano

    grazie ilmarmocchio :)

    sono d'accordo.milo ha fatto benissimo.
     
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  5. digilando
     
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    QUOTE (Milo Riano @ 16/4/2009, 20:43)
    Che cos’è un uomo in rivolta?
    Un uomo che dice no.....è anche un uomo che dice di sì.
    ..
    Insomma, questo no afferma l’esistenza di una frontiera.
    ..
    In essa, l’uomo che camminava sotto la sferza del padrone, ora fa fronte.
    ..
    Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di coscienza:
    ..
    Lo schiavo, nell’attimo in cui respinge l’ordine umiliante del suo superiore, respinge insieme la sua stessa condizione di schiavo.
    ..
    Egli oltrepassa anche il limite che fissava al suo avversario
    ..
    La coscienza viene alla luce con la rivolta.
    ..
    Mi rivolto, dunque siamo.

    In termini, meno filosofici, e piu' logici:.


    Vi voglio raccontare un piccolo aneddoto.

    Tempo fa c’erano due soci, ad un certo momento litigarono, e quello che aveva maggiori quote rimase a lavorare nella societa’ mentre l’altro, contro la sua volonta’, venne mandato a casa.

    Ora, in prossimita’ delle vacanze estive, il socio che lavorava chiese all’altro se voleva venire in azienda, ovviamente per farsi sostituire perche’ andava in ferie e quindi gli faceva comodo.

    Bene, quando gli feci notare che aveva sbagliato ad accettare e che cos¡ faceva quello che voleva l’altro, lui si giustifico’ dicendo che era lui che voleva, perche', evidentemente,se avesse voluto, sarebbe rimasto a casa.

    C’e’ un errore di fondo in questa ultima frase, ed e’ il seguente: Lui, il socio lasciato a casa, crede di agire la propria volonta’, ma in realta’, sta solamente agendo la volonta’ dell’altro, e la cosa risulta evidente dal fatto che quando l’altro non vuole (che lui sia in azienda), lui non e’ in azienda, quando l’altro vuole che sia in azienda, lui e’ in azienda!

    Non e’ la sua volonta’……e’ quella dell’altro!

    Chi conosce l'algebra booleana, si accorgerebbe subito che mettendo il relazione le “entrate e le uscite” dei due soggetti, il secondo…….viene annullato. (cioe’ scompare letteralmente dalla formula) (1)

    Affinche uno possa dire che sta esercitando la propria volonta, ovvero, che sia un soggetto esistente, deve esistere un contrasto (cioe’ opporsi almeno in un caso) alla volonta’ dell’altro.
    ...

    (1)

    In termini di funzioni logiche, se indichiamo con s1 la volonta' del socio maggioritario, s2 la volonta' del minoritario, e U l'uscita (ossia cio' che si verifica), abbiamo:

    Con 0,1 si indica la condizione che s2 non lavori (0) o lavori (1).
    Quando lo 0,1 e' sotto i soci (s1,s2) esprime volonta' (voglio che s2 lavori o meno), quando e' sotto U, esprime cio' che accade (U=0 significa che s2 non lavora)
    Con _ si intende una condizione non espressa, non verificabile.

    s1 | s2 | U
    -------------
    0 | 0 | _
    0 | 1 | 0
    1 | 0 | _
    1 | 1 | 1


    La funzione U=f(s1,s2) e' semplicemente U=s1 (i valori di 0,1 sotto U coincidono con i valori di 0,1, sotto s1), ossia ,la volonta' di s2, essendo assente dalla formula, e' ininfluente.

    E questo perche' i casi contrassegnati con "_" , sono 'ipotetici', non esistono, "metafisici" per cosi' dire, e non immanenti, perche' mai accaduti , ed in quanto tali, frutto della finzione, e non della realta'.

    QUOTE (digilando @ 17/4/2009, 09:16)
    "metafisici" per cosi' dire, e non immanenti, perche' mai accaduti , ed in quanto tali, frutto della finzione, e non della realta'.

    E questa e' in fondo anche la coscienza:

    Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di coscienza
    La coscienza viene alla luce con la rivolta.


    Che cos'e' la coscienza?
    L'eliminazione di tutti i "_" dal risultato.


     
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    CITAZIONE (digilando @ 17/4/2009, 09:30)
    In termini, meno filosofici, e piu' logici:.
    [...]

    Analisi molto bella. Benvenuto e complimenti...
     
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  7. LesPaul
     
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    Questa discussione, più che da OT, sarebbe da mettere nella sezione "Discussioni in Rilievo"... altro che storie!
     
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6 replies since 16/4/2009, 19:43   325 views
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