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  1. Davide.4.
     
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    Donne in sala operatoria
    Più brave, e più discriminate


    Nella settimana dedicata alle “pari opportunità” val la pena raccontare la vita difficile delle dottoresse che hanno scelto un “mestiere da maschi”. All’ospedale San Timoteo sono quattro, tutte stimate e ricercate dai pazienti. Ma costrette a fare i conti con una sorta di legge non scritta che in corsia le considera inadeguate rispetto ai colleghi. Ecco le loro storie e le peripezie per conciliare un lavoro duro e le necessità familiari

    Il dottor James Barry, chirurgo militare inglese, fu il primo a eseguire con successo un parto cesareo. Laureatosi a soli 17 anni, stimatissimo e famoso per le sue doti professionali, dimostrate ampiamente durante le guerre napoleoniche, morì nel 1865. E solo allora si scoprì che quello che tutti chiamavano “the beardless lad”, il ragazzo senza barba, altri non era che una donna. Lo aveva tenuto nascosto perché la sua professione, quella di chirurgo appunto, era praticamente interdetta all’universo femminile. Visto che questa è la settimana dedicata alle “pari opportunità” sarebbe bello poter raccontare che quella della dottoressa “James Barry” è una storia dimenticata dal tempo e superata dagli eventi. Purtroppo non è così.

    Sono passati centocinquanta anni, ma quella sorta di divieto a entrare nel mondo della chirurgia per le donne – non teoricamente, ma nella sostanza – in qualche modo ancora sopravvive. Sono i numeri a dirlo. Secondo una ricerca condotta l’anno scorso dall’Acoi (Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani), il numero di laureate in medicina supera di gran lunga quello dei colleghi maschi e in chirurgia la crescita delle donne rispetto al passato è così vistosa che nei prossimi dieci anni il numero dei camici verdi al femminile potrebbe persino triplicarsi. Nonostante ciò le iscritte all’Acoi e alla Sic (Società Italiana di Chirurgia) sono tuttavia poche – tre anni fa erano 783 - appena un decimo dei colleghi maschi. Fra queste, quelle che ricoprono incarichi dirigenziali non sono neppure l’1 per cento degli iscritti, e ancor meno quelle che insegnano all’Università. Un quadro sconfortante, in particolare se si scopre che oltre il 50 per cento delle professioniste denuncia episodi di mobbing durante e, soprattutto, all’inizio della carriera. Non si tratta solo delle solite squallide molestie sessuali, ma di vera e propria emarginazione professionale. Alcuni esempi? Ridotta (forzata) partecipazione alle sedute operatorie, esecuzione di interventi limitati alla chirurgia di superficie, difficile ingresso in uno staff chirurgico dove spesso i maschi vengono preferiti a parità di curricola e preparazione specifica. Questo perché molto diffusa, in un ambiente ancora troppo maschilista, l’opinione che una donna non sia in grado di prendere decisioni rapide o di affrontare interventi di chirurgia maggiore, ai quali può prender parte, purché non si tratti di eseguirli, come si dice in gergo, “in prima”.
    Anche a Termoli la situazione è simile?

    Al San Timoteo se ne contano appena quattro, che operano nei reparti di chirurgia, ortopedia, otorinolaringoiatria e ginecologia-ostetricia. «E’ un lavoro duro, difficile. Puoi rischiare di trascorrere giornate intere in ospedale, specialmente quando sei reperibile. Spesso la seduta operatoria finisce alle quattro, poi c’è l’ambulatorio o la visita pomeridiana in reparto». Parole di Mirella Esposito, 47 anni, chirurgo d’urgenza. Da circa un anno e mezzo lavora in Chirurgia Generale, dopo un lungo periodo in Pronto Soccorso. «Ho frequentato la Chirurgia per più di dieci anni, compresi quelli della specializzazione, come volontaria. Era dura anche allora, senza le stesse responsabilità. Adesso, con un marito e un figlio di 8 anni, la vita è certamente più complicata, ma la mia famiglia mi aiuta ad andare avanti. Non è facile conciliare il lavoro con gli affetti».

    Anna Cordisco, sposata, due figlie, una all’Università, ortopedico ormai da quasi vent’anni: «In famiglia bisogna organizzarsi e collaborare, avere spirito di sacrificio e disponibilità a dare una mano. Quando torno tardi dal lavoro mio marito ha già cucinato. Dopo vent’anni di matrimonio non ho ancora divorziato» ride. Continua: «Il confronto con i colleghi è sempre difficile, conflittuale. Una donna deve rendere conto, dimostrare quello che sa e vale, e spesso non le viene riconosciuta alcuna professionalità. Nessuno ti dice brava, anche quando i fatti ti danno ragione. Non che uno voglia dei complimenti, perché facciamo solo il nostro dovere. La donna poi non ha pretese di avere sue opinioni: si documenta, studia, cerca di portare nel suo lavoro l’esperienza altrui, ne fa tesoro. E’ molto più precisa e capace di utilizzare quell’intuito clinico che l’eccessiva razionalità maschile mette qualche volta da parte».
    E il rapporto con i pazienti? «I pazienti si fidano. Noi donne siamo più aperte e sensibili» è la dottoressa Esposito ad intervenire «Alcuni parlano apertamente di problemi che non confiderebbero a un maschio. E nessuno ha mai rifiutato di essere operato. Del resto il professor Veronesi tempo fa ha detto che si farebbe tranquillamente operare da una donna».
    Mirella Esposito e Anna Cordisco sono concordi nel proporre una migliore organizzazione del lavoro di sala e di corsia. Non può che giovare ai pazienti e alla vita privata di chi svolge un’attività così impegnativa, e questo non è un problema di genere. «Non sarebbe una cattiva idea quella di creare in ospedale un asilo, dove poter seguire i propri figli, come succede in altre realtà» propone la dottoressa Cordisco. «Le donne chirurgo ne sarebbero felici, come ogni mamma che lavora in ospedale».

    Professione difficile e rischiosa, dunque, sotto molti punti di vista. Ma la rifarebbero se tornassero indietro. «Senza dubbio» risponde Mirella Esposito «Uno dei problemi da affrontare è spiegare a mio figlio in cosa consiste il mio lavoro e lui è molto interessato a ciò che fa la mamma. Certo occorre essergli vicina il più possibile. Fare il chirurgo è impegnativo ma può dare grandi soddisfazioni». Anche se c’è molta competizione e talvolta scarsità di risorse, materiali e umane. Specialmente adesso che la sanità molisana sta vivendo un stagione critica e carica di incertezze.

    (Pubblicato il 18/06/2007)

    di Giulia Cannito


    FONTE: http://www.primonumero.it/attualita/primop...olo.php?id=3276



    Le 30enni non fanno figli
    per salvare il lavoro


    Doppio lavoro Quasi una donna sposata su due a Milano deve sia lavorare che occuparsi da sola di casa e figli. Ma a quanto ammonterebbe tanto lavoro tradotto in stipendio?

    Se anche il lavoro di casa e la cura dei bambini fosse remunerato il reddito così calcolato ammonterebbe per le donne milanesi a quasi 35 miliardi (quasi 17 per lavori di casa) contro 31 degli uomini (poco più di 3 per le attività casalinghe): a Milano il reddito femminile supererebbe quello maschile del 12% contro una media italiana del 3,6%.
    Cinque ore Secondo i dati presentati ieri dalla Camera di Commercio in occasione del premio Milano produttiva, il lavoro domestico occupa le milanesi circa 5 ore e mezza al giorno, in linea con le italiane, e più di tutti gli altri Paesi europei. L'uomo italiano è infatti il meno collaborativo.
    Meno figli Secondo la ricerca le donne milanesi lavorano di più della media delle donne italiana, (60,5% di quelle in età lavorativa contro 46,3% della media). Ma fanno meno figli. Le difficoltà maggiori, secondo il dossier, le vivono proprio le donne che lavorano e in particolare le trentenni: solo una su tre ha figli. Fanno eccezione le immigrate: se oggi un neonato su tre è figlio di stranieri, il sorpasso arriverà tra quattro anni. Oltre una trentenne su due (56%) non fa figli, o decide di non farne altri, perché rendono difficile per la madre lavorare. Infatti quasi una donna sposata su due (42%) a Milano deve sia lavorare che occuparsi da sola di casa e figli contro la media nazionale del 25%. Il 48,4% delle famiglie con bambini sotto i 3 anni ricorre ai nonni per accudirli, il 32,3% alle babysitter.
    Il part-time Riguarda il 41% delle donne occupate con bimbi sotto i due anni, raggiungendo picchi nelle mamme con età compresa tra 25 e 29 anni (51,3%) e tra 40 e 44 anni (53,8%). Ansa, Apcom

    18\06\2007


    FONTE: http://city.corriere.it/news/articolo.php?...75&id_testata=2
     
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